«Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
[…] Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga ne’ cuori esuli a conforto»
G. D’annunzio, I pastori (Alcyone, 1903)
Settembre è spesso considerato come un “nuovo anno”: termina la calda stagione (o per lo meno sul calendario!) si ritorna a lavoro dopo le ferie, si riaprono le scuole, i centri sportivi riprendono le loro attività sperando di conquistare quanti più nuovi clienti possibili con i loro accattivanti claim e vantaggiose offerte e qualsiasi altra cosa vi venga in mente. Forse è per questo motivo che settembre, come primo mese di un “nuovo anno”, è il periodo dei nuovi propositi, degli obiettivi da segnare e perseguire nei mesi successivi, delle cose lasciate in sospeso che ci ripiombano sulle spalle: possiamo dire che è un po’ il mese delle ripartenze. È in questo periodo infatti, che i tanti studenti fuori sede tornano nelle loro città di studi per proseguire il loro percorso di formazione mentre. Altri invece fanno per la prima volta le valigie, pronti per affrontare con slancio e ottimismo i mesi che li attendono, ignari spesso di un futuro non così clemente come siamo soliti immaginarlo.
Partenze. Un po’ come i pastori di D’Annunzio che con i loro greggi tornano verso pianura, percorrendo antichi tratturi custodi di storie narrate sui suoi solchi, migrando in territori più miti.
Il tema della migrazione sembra essere sempre più ricorrente nei nostri giorni: sono certa che chiunque stia leggendo queste righe conosce qualcuno che ha lasciato la sua casa alla ricerca di un futuro migliore o è esso stesso il soggetto di questa “fuga” (come chi vi scrive). Ma d’altronde, come la storia ci insegna, la migrazione è sempre stato un problema cruciale, soprattutto per le regioni del sud. Poteva essere consuetudine e comprensibile durante gli anni ‘50, ’60 o ‘70 ma oggi dovrebbero (sottolineiamolo) esserci ovunque condizioni di vita più soddisfacenti, non dovrebbe essere frequente. Ed invece nel 2020 parliamo ancora di guerra, fascismo e odio razziale: «un mondo che avanza e non dovrebbe più avanzare»?
L’idea per questo articolo nasce ripensando ad un concorrente dell’Eurovision Song Contest, un festival trionfo del kitsch-trash ma, cosa principale, all’insegna della multiculturalità; una competizione canora che riceve consensi crescenti ogni anno che passa soprattutto per le esibizioni (a volte anche troppo esagerate) dei suoi concorrenti. Di tutti i brani – ricordiamo che l’Italia quest’anno ha partecipato con Angelina Mango ed il suo La Noia posizionatosi settimo nella classifica finale – quello che mi ha catturato di più, complice anche l’esibizione, è quello del concorrente della Croazia ovvero Baby Lasagna con il brano Rim Tim Tagi Dim. Per chi non l’avesse ascoltato, si tratta sicuramente una di quelle canzoni che non passa inosservato e aveva tutte le carte in regola per spopolare come tormentone grazie al suo ritmo incalzante (il cantante proviene dall’esperienza in una band rock) ed il “balletto”. Al di là di questo, il testo del brano racconta di un ragazzo che si trasferisce in un’altra città per accettare un’offerta di lavoro; in un mix di emozioni che uniscono l’entusiasmo all’ansia, raccontandoli con leggerezza ed ironia nel brano. Certo, la canzone non è sicuramente un brano dal testo profondo ma, proprio per l’umorismo utilizzato, la canzone riesce a trasmettere la sensazione di smarrimento che si prova quando affronti la vita in una nuova città. Essendo lui croato, non ho potuto fare a meno di pensare che questa necessità di spostarsi verso “terre lontane” non è tipico solo dell’Italia e mi sono quindi chiesta: perché siamo costantemente costretti a sradicare le nostre radici dalle nostre città? C’è chi ovviamente lo fa per scelta e curiosità, chi dopo un periodo torna al suo nido, ma la maggior parte di volte, soprattutto per chi viene da piccole realtà (come ci vi scrive) non può che sentirsi costretto a fare le valigie e partire. Per non tornare forse più.
Il tema della migrazione è ovviamente dibattuto in tutti i settori ed ovviamente anche nella musica, partendo dagli albori del fenomeno sino ai giorni nostri. Un disco nel quale mi sono rivista e che credo esprima bene il concetto della necessità e del desiderio di andare via, sia incarnato dal disco di Dimartino (si, senza Colapesce perché hanno delle brillanti carriere soliste alle spalle) Un Paese ci vuole del 2015: un concept album che prende ispirazione da una frase de La luna e falò di Cesare Pavese e ruota attorno al concetto di “paese” come luogo fisico e dell’anima. Tra Case stregate, giorni che passano inesorabilmente su I calendari, emozioni dirompenti che tornano con la stessa forza di una guerra (Come la guerra la primavera), trovano spazio Le montagne: una canzone in cui diventa prorompente il desiderio di andare via della propria città che resterà sempre viva nel cuore e nella mente («le montagne ti seguiranno») fino a sfociare ne La vita nuova. Qui:
«Torna Vincenzo
Torna dal Nord Europa
Con la ragazza bionda
Parla di grandi navi e discoteche
Come cattedrali
Mostra il suo nuovo accento
Come un monumento alla vita nuova
Dice che fuori è meglio
Lo Stato è giusto
E la legge è buona».
Un disco incredibilmente vero e attuale, nonostante i suoi (prossimi) dieci anni e che incarna in tante diverse frasi dei suoi testi, quei forti sentimenti contrastanti quando si vive lontani da casa e ti mancano anche le cose più piccole.
Rieccoci quindi a settembre: il mese dei buoni propositi, il mese degli inizi, il mese delle valigie e dei treni che prenderanno lavoratori o studenti per ricominciare ad “errare” chissà dove, immergendosi in nuove abitudini, e vagare su nuove strade. Settembre è anche il mese in cui continueremo a sperare di ricevere una risposta all’ennesimo curriculum inviato, il mese in cui continueremo a fare un lavoro che non ci soddisfa o affideremo tutte le nostre speranze in un’attività che stiamo per iniziare. O semplicemente, il mese in cui continueremo con le nostre attività quotidiane che, oramai assorbite, costituiscono un’appagante routine.
Errare. È una parola che mi è sempre piaciuta per il suo duplice significato: “1. a. Andare qua e là senza direzione o meta certa […] 2. a. Ingannarsi in un’opinione, sbagliare in ciò che si crede o si afferma.” (Vocabolario on line Treccani) Parafrasando la nota poesia di Leopardi, mi sento un “pastore errante” che non sa dove andare, con una meta da raggiungere ma senza una strada da percorrere intuendo che l’unica cosa da fare, è iniziare a camminare.
«[…] dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?»
Giacomo Leopardi, Il canto notturno del pastore errante dell’Asia, 1831
Buon “anno nuovo” a tutti.