Dal 10 al 13 novembre al Teatro India, Enzo Cosimi, uno tra i coreografi più affermati sulla scena contemporanea, icona punk della danza italiana, porta in scena a Roma al Teatro India, nell’ambito del festival del RomaEuropa, la sua Orestea – Trilogia della vendetta. Tre sono i capitoli di questo lavoro frutto della fusione di molteplici arti: l’Agamennone, rinominato da Cosimi Glitter in my tears, Coefore Rock’n’roll (2020) e Le lacrime dell’eroe (2022). Abbiamo incontrato Enzo Cosimi che, tra una prova e uno spettacolo, ci ha rivelato il senso del suo racconto astratto, una danza della tragedia classica che prende vita nella nostra contemporaneità, impregnandosi di musiche, testi e digitale.
Enzo, la tua Orestea è una trilogia i cui capitoli sono uniti da un sentimento comune, quello della vendetta. Che impianto ha il lavoro e che significato ha quest’ultima all’interno di esso?
Il primo capitolo ha un impianto più teatrale ma la scrittura drammaturgica è molto interessante nel senso che cerca di unire ciò che è stato creato da me e dai danzatori con il lavoro sul testo di Eschilo e sulle esperienze personali dei danzatori stessi. Dei tre capitoli è sicuramente il più teatrale ma rispecchia comunque la mia ricerca, il mio sconfinamento nelle arti, quel voler creare un’immagine che unisca arti visive, testo, suono, danza. Il secondo capitolo lo definirei molto rock (anche se mi sento più punk) ma ho voluto chiamarlo così per la collaborazione con l’icona della musica techno romana Lady Maru; è una sorta di performance-concerto, un lavoro molto variabile. Nasce prima della pandemia ma può assumere varie forme. Qui lo presento in una versione che coniuga l’impianto teatrale con quello installativo; l’ultimo capitolo, invece, è un’installazione coreografica vera e propria.
La vendetta è il filo conduttore tra i tre episodi perché parto dalla figura dell’eroe. L’eroe per me è sempre stato importante, così come il gesto tragico. Il mio lavoro all’inizio era molto orientato sul corpo, poi ha subito un’evoluzione ed è passato ‘dal muscolo al nervo’, dal corpo ha coinvolto anche la psiche, la drammaturgia. Ultimamente sono tornato a indagare la figura dell’eroe e ho visto che essa è ormai rotta, decomposta e il ‘nervo’ è più appropriato per rappresentarla. Il tema tragico, dopotutto, è universale non solo per l’Orestea. È una febbre che anima il danzatore ma anche l’uomo comune. Dico sempre ai miei danzatori di danzare come se avessero la febbre a quaranta. Se si danza, se si vive la presenza in teatro in tal senso, si arriva necessariamente a una verità.
Vieni definito icona punk della danza italiana. Perché?
Mi ritrovo pienamente in questa definizione. Essa descrive la mia giovinezza. A ventidue anni sono andato a studiare a New York che negli anni ottanta era una città straordinaria, aveva una carica vitale artistica, esplosiva e io ho mantenuto questo spirito di rottura e di trasgressione anche nella maturità.
Forse per questo parla di eroe ‘rotto’?
Si ho voluto fare riferimento più che altro ai tempi che stiamo vivendo. Ne Le lacrime dell’eroe ho voluto lavorare su qualcosa per me spiazzante.
Sono tre lavori diversi. Nel primo la violenza è una metafora, nel secondo assume la forma di un concerto sul matricidio oggetto della tragedia, nel terzo si concretizza nel processo, lo stesso che nella tragedia porta all’avvento della democrazia lasciando indietro l’arcaico. Qui mi sono avvalso di collaboratori che lavorano sul digitale e che hanno creato una macchina, un’intelligenza artificiale istruita attraverso il testo di Eschilo ma anche attraverso casi di cronaca nera, di matricidio realmente accaduti. L’esito del processo viene deciso dalla macchina.
Per me è sempre stato importante lavorare sulla drammaturgia anche quando lavoravo più sul movimento pieno, sulla coreografia. L’astrazione non mi interessa minimamente così come la narrazione didascalica. Il mio è piuttosto un racconto astratto. Negli anni questa cosa si è sviluppata sempre di più. Ciò che oggi mi interessa maggiormente è trovare un punto di contatto tra le varie discipline, fermo restando che il mio punto di partenza resta naturalmente il corpo.
Come traduci i valori universali, i sentimenti umani propri della letteratura classica, quindi, l’amore, la vendetta, la morte , la democrazia ecc..nella danza?
I miei lavori, pur avendo un filo che li lega, hanno una componente di forte impatto teatrale performativo. Se si vuole trovare una coreografia tout court tradizionale nei miei lavori non la si trova.
La prima dello spettacolo è stata anticipata da un talk condotto dallo studioso Stefano Tomassini e dalla curatrice e dramaturg Maria Paola Zedda, autrice del libro Enzo Cosimi. Una conversazione quasi angelica. Che tipo di testo è? È una biografia o un saggio sulla tua identità artistica? O entrambi?
Maria Paola Zedda è una studiosa e, inoltre, ha lavorato con me per un decennio. Il suo è un libro che amo molto e che anche chi non è nel mondo della danza legge volentieri. La prima parte è una conversazione, in cui vi è parte del mio vissuto; in essa si parla delle ‘mie’ città, della mia esperienza formativa. Abbiamo poi selezionato dieci oggetti della mia casa e da questi è nata nasce una conversazione non filologica molto interessante. L’ultima parte è proprio un saggio sul mio lavoro. Pertanto posso dire che il libro è sicuramente un mix tra esperienza personale e artistica.