Anni Luce, la rassegna a cura di Maura Teofili ,in programma dal 2 ottobre al 6 novembre al RomaEuropa Festival, si configura come uno spazio di incontro e sperimentazione, dove nuove voci e linguaggi si confrontano e si evolvono in una ricca a variegata proposta laboratoriale di spettacoli in cui si intrecciano teatro di narrazione, arti visive e performance contemporanea.
Tra gli appuntamenti, il regista e attore Pietro Giannini con La traiettoria calante, un racconto teatrale dedicato al crollo del ponte Morandi, e Claudio Larena con Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio), che offre al pubblico un’esperienza artistica mescolando ironia e riflessione.
Centro della rassegna è Powered by ref, un progetto dedicato alla promozione di giovani talenti della scena teatrale italiana under 30, che vede protagonisti: Conferenza Balaam, guidata da Filippo Lilli, con Pezzo a due con dieci piante; il collettivo Dimore Creative, affiancato da Babilonia Teatri, con Transenne; e la performer e autrice Sofia Naglieri, la quale sotto la guida di Federica Rosellini, presenta Devozioni per occasioni di emergenza.
Il palco di anni luce vede in scena anche la regista e interprete Giulia Scotti in Quello che non c’è, vincitore del Premio Tuttoteatro alla arte sceniche Dante Cappelletti 2023, una poetica riflessione sulla dipendenza, che prende vita sul palco attraverso la fusione di parole, immagini e movimento.
Ne abbiamo approfondito gli aspetti distintivi con Giulia stessa, che ci ha rivelato come sia riuscita a intrecciare questi linguaggi per dare voce a una storia tanto personale quanto universale, creando un’esperienza teatrale intensa.
Cosa significa, per te, prendere parte a una rassegna come Anni Luce?
C’è stato un momento agli inizi, mi ricordo eravamo in residenza a Zona K a Milano, il lavoro stava crescendo, prendeva forma, era comparso il fumetto, in cui io ero in sala prove con Alessandra Ventrella e ho pensato “ma che stiamo facendo?”, “ore, giorni, mesi ad immaginare, a provare, a costruire un lavoro, e poi? Quando sarà finito cosa succederà? Quante date faremo? Quante persone lo guarderanno? Quanto in fretta ce ne si dimenticherà? Ne vale la pena?”.
Questo lavoro ha raggiunto la forma che ha ora grazie ad una serie di incontri fortunati con realtà teatrali che lo hanno sostenuto a vario titolo e con persone che gli hanno dato fiducia e lo hanno seguito crescere. Pur essendo un monologo è a tutti gli effetti un lavoro collettivo. Perciò la prima cosa che imparo: il teatro non si fa da soli nemmeno quando si è da soli in scena.
La seconda cosa: sapere di avere un debutto in una rassegna importante come Anni Luce permette di lavorare in sala prove con maggiore fiducia, avendo la certezza, anche quando le cose non funzionano, che il lavoro si farà e sarà visto. Per una persona nella mia posizione, al suo spettacolo d’esordio e con una piccola produzione, avere una prospettiva reale sugli scenari futuri restituisce un senso al lavoro in sala prove.
Essere inseriti nella rassegna Anni Luce è una grande occasione: per il lavoro, per essere visto da persone che altrimenti con tutta probabilità ne avrebbero ignorato l’esistenza, per noi, per misurarci all’interno di un contesto che è tra i più prestigiosi.
Quello che non c’è unisce diverse forme d’arte. Come riesci a integrare disegno dal vivo, illustrazione e teatro nella tua narrazione?
Quando abbiamo iniziato a lavorare allo spettacolo non credevamo che il disegno si sarebbe inserito in questo modo nel lavoro, volevamo lavorare con quello che il teatro permette: il corpo, la parola, la materia.
Durante le prove però è accaduto che avessimo delle idee, sotto forma di immagini. Spesso quando disegno o quando scrivo utilizzo elementi non umani, legati al mondo animale o a paesaggi naturali o urbani, per descrivere gli stati emotivi dei personaggi o certe atmosfere della storia.
Mi era venuta questa idea che ad un certo punto del lavoro mia zia comparisse sotto forma di cervo, in sostanza volevo che comparisse un cervo in scena. Ho cercato come recuperare cervi in internet ma tutto quello che ho trovato era molto costoso. Dopo un po’ di tempo ho capito che in un’ altra scena ci sarebbero dovuti essere dei corvi, immaginavo potessero volare per lo spazio. Mi sono informata, anche in questo caso si poteva fare ma servivano parecchi soldi e noi non ne avevamo. A quel punto per me è stato chiaro che avremmo usato il disegno proiettato. Il disegno permette di spostarsi in un altrove, immaginare scenari alternativi, lavorare con le distorsioni e con la magia, è una specie di superpotere.
Non si tratta però di una scelta di ripiego, o puramente formale, ma di una direzione profondamente annodata ad un senso.
Per diversi anni non ho fatto teatro, avevo un lavoro diverso, è stato un tempo in cui ho scritto molto, più scrivevo più scoprivo quale forma aveva la mia voce come autrice.
Il mio modo di scrivere e di pensare funziona per immagini e così ho iniziato ad abbinare i testi che scrivevo ai disegni.
Per me questo spettacolo rappresenta esattamente questo: un oggetto in cui si incontrano le diverse pratiche che ho coltivato negli ultimi anni e che è fedele al punto in cui mi trovo oggi.
La tematica della dipendenza che affronti nello spettacolo come si intreccia con gli altri elementi artistici?
La dipendenza non è e non vuole essere la questione centrale del lavoro. Per me, se dovessi dirlo in una frase, il punto è: questa è la storia di un uomo che vuole salvare sua sorella dalla morte ma non ci riesce.
Il legame tra fratelli, cosa si è disposti a perdere per salvare la vita di un fratello o di in una sorella, queste sono questioni che mi interrogano e mi riguardano.
(Ph. Carlo Scotti)