“Un regista giovane deve essere presuntuoso per forza, perché il cinema italiano è brutto”. Così rispondeva Nanni Moretti a Monicelli in un noto confronto tv del secolo scorso.
Castellitto forse come Moretti è presuntuoso, ma se questo contribuisce a restituire un’idea di cinema così esplosiva fa bene.
Enea è un piccolo seme nel giardino di un nuovo cinema italiano. Generazionale, romanticamente crepuscolare, narcisista, tecnicamente eccellente a tratti incerto ed estremamente vitale.
Due amici Valentino ed Enea figli di due famiglie borghesi di Roma Nord consumano la vita tra locali e spaccio per inseguire “la potenza” e vivere pienamente la loro esistenza in equilibrio tra strada, circoli esclusivi e famiglie disfunzionali.
Un film ambizioso, pieno di idee graffianti, anche troppe, che procede per accumulo e mai per sottrazione. Eppure, ogni volta che l’intreccio sta per cedere, Castellitto riesce sempre a riprenderlo in mano, a trovare uno spunto creativo per riaddrizzarlo.
Colmo di rimandi cinematografici, da Antonioni a Sorrentino da Fellini a Tarantino e Scorsese, Enea è cinema fresco, confuso nella scrittura, ma con un enorme potenziale. Il narcisismo che pulsa ha una spinta talmente singolare ma per questo unica che vale l’esperienza del film. Purtroppo questo è anche il suo limite più grande. Il rischio è quello di un cinema dallo sguardo ombelicale.
Castellitto regista ha talento e surfa (bene) su una storia che ruota attorno a dei personaggi in equilibrio tra borghesia e criminalità in una Roma che a quanto pare non si può più raccontare senza malavita.
Tutti volteggiano sulla scena alla ricerca di un’identità in un’epoca decadente e vuota, in cui sembrano aver smarrito la consapevolezza di saper vivere tra le pagine della vita naufraghi in un limbo delle coscienze. Zanzare intrappolate in una mano o in un appartamento alla ricerca di un’uscita.
Eppure a questo veleno, a questa depressione intesa come strumento per fronteggiare la vita, a queste vite spezzate, che procedono esibendo maschere di sorrisi finti, si può porre rimedio.
Esiste un antidoto potentissimo: l’amore.
Un amore che però necessita della capacità di essere riconosciuto, compreso, colto, vissuto. Saper resistere. Avere il coraggio di baciare.
“Torneranno i Baci” suona quindi come un mantra. Una profezia in cui questa generazione sembra avere un ruolo solamente fatale e tragico.
Non a caso tutti i baci sono fuori camera. Tutti fuorché uno. L’unico bacio che si eleva sopra ogni evento in questa epoca decadente, nichilista e priva di riferimenti appartiene agli unici personaggi in grado di resistere. Gli unici personaggi che hanno prodotto non solo un desiderio, ma anche una coscienza di sé.
Sullo sfondo, sfocato c’è Enea, eroe romantico che fonde e s(fonda) una famiglia cadendo a terra come una palma che frana su un mondo fatto di vetro nell’indifferenza generale.
Potere, potenza, rimorso, rabbia, attrazione e infine l’amore, l’unica via percorribile per la salvezza. Tutti cerca una bussola per orientarsi nell’insensatezza dell’essere, un modo per poter resistere agli urti della vita.
“La potenza richiede generosità e sacrificio” dice Enea e Castellitto è fin troppo generoso al punto da risultare a tratti sovraesposto in un film altamente personale nel quale rischia di soffocare personaggi minori che sono solo suggeriti e che sono meravigliosi.
Una cosa è indiscutibile. Lo stile. O meglio gli stili che si mescolano in un centrifugato di puro talento visivo. L’idea di cinema. La recitazione, suggerita pacata, condita da un umorismo leggero e alterna dialoghi estremamente brillanti: “Io vengo da una famiglia povera, questa è la differenza tra te e me” o “Nn te devi mai giudicà de bacià chi ami. Mai. Perchè ‘a vita n’dura tutta ‘a vita, ‘a vita dura finchè sei giovane, poi inizia ‘nantra cosa. E se non c’hai nessuno da bacià vicino diventi matto. Pè questo ‘a gente se butta de sotto dà finestra e ‘nn riesce manco a morì”. Con qualche scivolata didascalica di troppo: “Le ragazze belle rendono la vita leggera come le nuvole”.
Giorgio Quarzo Guarascio, alias Valentino, è eccezionale. Benedetta Porcaroli sembra uscita da un quadro sacro, avvolta da un’ aura di un’ingenuità divina. Adamo Dionisi (Giordano) è strepitoso e ci regala una scena che sembra uscita da un film di Segio Citti. Castellitto (Celeste) e Noschese (Marina) sono precisissimi, Matteo Branciamore (Gabriel) è giusto nel ruolo del localaro romano. Giorgio Montanini inquietante nel ruolo del direttore onnisciente Oreste Dicembre.
La Roma borghese è ben disegnata ed è senza dubbio la parte più riuscita del film. Una Roma che Pietro Castellitto conosce bene. Qui Bene e Male si mescolano in un film scisso tra apparenza e apparire, illusione e disillusione. Una critica alla borghesia, alla famiglia-clan, all’esplorazione di un disagio generazionale calato in una realtà disfunzionale dai codici intraducibili. Un film contemporaneo che a volte inciampa e si autocompiace con un finale morale fuori fuoco dalla presa diretta “silenziata”. C’è una nuova voce nel cinema italiano ed è quella di Pietro Castellitto, piaccia o meno, questo è un fatto.