Il punto di rugiada. Un film lieve, come la neve che fiocca nella scena madre.

30 Gennaio 2024


Due ragazzi, Manuel (Roberto Gudese) e Carlo (Alessandro Fella) vivono in modo border. Il primo spaccia, il secondo ha causato un grave incidente automobilistico, nel quale è rimasta sfregiata una ragazza. La pena da espiare è svolgere un periodo ai lavori socialmente utili a Villa Bianca, un’elegante casa di riposo per anziani sotto la supervisione della capoinfermiera Luisa (Lucia Rossi). Il punto di rugiada è il nuovo film di Marco Risi, figlio di Dino (gigante del cinema italiano) e autore di alcuni film troppo spesso dimenticati. Fortapasc su tutti, il Branco (attualissimo) o il dittico Mery per sempre/Ragazzi fuori cui la serie ormai cult Mare fuori deve davvero molto.
L’intuizione è limpida. Risi entra con tatto garbato in quel “cimitero degli elefanti” che sono le eleganti case di riposo di lusso per anziani mettendo in scena un confronto generazionale tra protagonisti che da vita a un percorso di conoscenza e formazione reciproco che esplora ciò che la vita dona e ciò che la vita sottrae.
Il punto di rugiada è un film lieve, come la neve che fiocca nella scena madre.
Una commedia corale sui ricordi, sul senso del dimenticato, sulla malinconia. Sulla perdita degli affetti, sui riflessi che la solitudine genera nelle persone, fiaccate dallo scorrere del tempo nonostante la volontà. Ambientato nell’estate del 2018 la narrazione procede nell’arco temporale di un anno. Scandito in quattro capitoli che corrispondono alle quattro stagioni che precedono di poco gli eventi tragici della pandemia del 2020. Pandemia che Risi ci suggerisce sul finale del film mescolando di fatto cronaca e fabula non tradendo lo spirito polemico che caratterizza la sua idea di cinema. Una regia asciutta, essenziale, tratteggia personaggi che ci fanno sorridere e che aprono le porte ad un’intimità celata tra i solchi di rughe che sembrano parlare.
La dimensione corale e colorita degli “Elefanti” ospiti di Villa Bianca è senza dubbio la parte più riuscita del film. Dino (Massimo De Francovich), il fotografo mai domato che si sente come un leone in gabbia. L’austero Pietro (Eros Pagni) il colonnello che non è riuscito a diventare generale che ricorda il tenete Fili (Massimo Dapporto) in “Soldati. 365 all’alba”. La bellezza di Antonella (Erika Blanc) che guarda in Tv una sé stessa giovanissima in “La vendetta di Lady Morgan”. La tinta colante del crooner Maurizio Micheli che non vuole arrendersi al tempo che scorre (indimenticabile la sua performance in Rimini Rimini, lì cantava Champagne qui canta Riderà).
Tante maschere, tanti modi per ingannare l’avvicinarsi di una fine ineluttabile. Tuttavia a metà del secondo atto Risi sceglie di perdere contatto con la pluralità delle emozioni e dei personaggi che ha disegnato e decide di metterne sotto la lente d’ingrandimento due e due soltanto. La messa a fuoco del racconto si sposta in modo inatteso, interrompendo quella melodia che rendeva il film armonioso, composto da note delicate avvolte in una sordina di rugiada. Marco Risi sceglie di approfondire il rapporto tra il giovane Carlo e il disilluso Dino (Risi/Monicelli?).

Progressivamente perdiamo i tratti degli altri protagonisti, in particolare delle caratterizzazioni “giovani” per ritrovarli tutti in un finale sommario, dove l’opera ha già perso la limpidezza dell’intuizione iniziale. Prede e predatori, riferimenti colti che spaziano da Buster Keaton a Anton Čechov il cui racconto breve “La Malinconia” ci sussurra continuamente il male dell’incomunicabilità che resta uno dei temi portanti del film e forse uno dei mali di questo inizio secolo dove molto si dice ma poco rimane.

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