“Sound of freedom”: il canto della libertà e della realtà nascosta

31 Gennaio 2024

Assistendo alla proiezione di “Sound of freedom” – il canto della libertà, del regista messicano Alejandro Monteverde, portato in Italia dalla casa di produzione                   Dominus Production, con protagonista Jim Caviezel della “Passione di Cristo”, tornano in mente le parole di Lars von Trier sull’arte cinematografica: «Un film deve essere come un sassolino in una scarpa». 

È impossibile difatti uscire dalla sala senza un bagaglio di consapevolezza in più, una consapevolezza amara, tale da non riuscire a guardare con gli stessi occhi il mondo in cui viviamo. un macigno, più che un sassolino, che difficilmente riusciremo a levare dalle nostre scarpe, affondate nella realtà, troppo spesso trascurata, del traffico di bambine e bambini.

A essere rappresentata è una storia vera, quella di Timothy Ballard, il fondatore dell’organizzazione no profit Operation Underground Railroad, impegnata nella lotta contro le reti pedofile.

L’ agente governativo sotto copertura riesce a salvare il piccolo Miguel, in America Latina, dal seviziatore a cui era stato venduto da Giselle (Yessica Borroto Perryman), la donna, ex reginetta di bellezza, che aveva sequestrato lui e la sorella giorni prima, strappandoli silenziosamente, con una truffa ben costruita, alle braccia del padre Roberto (José Zúñiga).

Ma Timothy è padre a sua volta, e per lui il caso non può concludersi qui, non accetta di riportare a un genitore un solo figlio, destinandolo a una lenta rassegnazione per la perdita della figlia più grande Rocìo (Cristal Aparicio).

Così, lasciato il lavoro, con l’aiuto di Vampiro (Bill Camp), un ex contabile del cartello, inizia una lotta disperata contro il tempo, e specialmente contro lo spazio, alla ricerca della bambina di cui si sono perse le tracce. Una lotta consumatasi in un’operazione sotto copertura che gli permette di salvare altre 50 vittime costrette a sopperire come schiave e schiavi del sesso, e che ora, grazie a lui, possono tornare a cantare.

L’agghiacciante, incisiva, potenza comunicativa del film è negli occhi dei bambini e delle bambine protagonisti; piccoli attori dallo sguardo innocente, volitivo, candido, quello stesso sguardo che milioni di vittime hanno avuto nel momento del loro sequestro, nel momento delle sevizie e nella graduale perdita della loro infanzia. Uno sguardo sul quale l’obiettivo della telecamera non smette di soffermarsi, che trova concretezza nella frase “ma che mondo è mai questo?”, ripetuta anche dalle labbra del protagonista.

A sottolineare la lunga portata delle tratte è la fotografia, soffermandosi sulla maestosità della natura che circonda i lunghi viaggi a cui i bambini sono costretti, e sul degrado dei nascondigli in cui sono rinchiusi; regia e sceneggiatura si ritagliano su di loro e attraverso la telecamera lo spettatore fa esperienza dell’orrore, un orrore rappresentato privo della sua reale violenza, ma suggerito da tempo, spazio e silenzio.

A rompere la drammaticità sensoriale degli avvenimenti è il dinamismo, d’obbligo in ogni film d’azione, e sprazzi d’umorismo, testimoni di come al di fuori di questi piccoli mondi nascosti la quotidianità scorra inevitabilmente, in ogni sua sfumatura, anche comica.

Un contrasto che rende la pellicola meno indigesta, alla portata di tutti, come denuncia e fedele ritratto di ciò che facciamo finta non esista.

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