Guardarsi allo specchio per incontrare se stessi.

26 Gennaio 2022

Intervista alla cantautrice Angelica in occasione dell’uscita
del suo secondo album “Storie di un appuntamento”

Testo Emanuele e Giuseppe Senia

L’incontro per eccellenza, da sempre, nasce da un appuntamento, condizione necessaria affinché due anime, due destini, due persone, si incrocino, stabiliscano un contatto. La cantautrice Angelica, dotata di una sensibilità rara e un sound raffinato e inconfondibile, ne racconta e ne canta l’essenza nel suo secondo album da solista, “Storie di un appuntamento”, appunto.
Un diario sincero e sentito che traspone attraverso accordi, note e parole, una serie di appuntamenti, programmati o causali: con gli amori passati, presenti e futuri, con gli amici, con il lavoro, fino ad arrivare a quello più importante, l’appuntamento con se stessi, dal quale non si può sfuggire. Solo dopo aver incontrato se stessi, essersi conosciuti e riconosciuti fino in fondo, perdonati e amati, ci si può aprire all’incontro vero con l’altro. Una fotografia sonora dal sapore vintage, retrò, e allo stesso tempo estremamente moderna e innovativa, di una musicista e soprattutto di una donna forte e libera, che non ha paura di guardarsi allo specchio, scoprirsi diversa, cambiata, cresciuta, ma sempre se stessa.

Ciao Angelica, come stai e come stai vivendo l’uscita di questo secondo disco da solista in un periodo difficile come questo?
Molto bene, strano perché passo tutto il tempo al telefono, su Skype e Zoom. Manca un po’ quella sensazione di fare le cose, quella parte un po’ più fisica, ma sono contenta. Sto vivendo questo momento un po’ da kamikaze, nel senso che quando fai uscire un disco sapendo quello che sta succedendo intorno, sai anche che non è proprio music friendly! Siamo in un momento in cui arte e cultura stanno soffrendo tanto, soprattutto per le persone che non hanno tanti stimoli.
Chi è Angelica oggi? Quanto sei cambiata da “Quando finisce la festa?”
Parecchio! “Quando finisce la festa” (disco precedente) parla proprio di un momento di uscita, sia fisicamente che da me. Sono stata “fuori” a cercare cose che non mi appartenessero, per paura di fare un po’ di introspezione, di vedere cose che mi stavano antipatiche, di vedere dei lati che non mi piacevano. Invece in questo disco sono rientrata, è proprio l’appuntamento con me stessa, il fatto di vedersi allo specchio. Dopo lo shock iniziale è tutto in discesa.

Come hai vissuto la quarantena e quanto quest’ultima ha influenzato la scrittura del disco?/ e invece rispetto ai precedenti lavori?
Il disco, in realtà, è stato scritto prima, però non completamente: ci sono delle frasi come “la mia casa è diventata città, forse dovrei uscire…” (“Peggio di un vampiro”) è un po’ riferita a quei giorni, al fatto di stare in “via del bagno” o in “piazza della cucina”. La mia quarantena è stata un disastro e non ho scritto nulla, avevo altri problemi. Poi pian piano mi sono ripresa e sono tornata a scrivere e lavorare verso luglio/settembre.

In questo disco ti sei lasciata andare sotto ogni punto di vista: personale attraverso i testi e musicale (armonia che si muove e scenari musicali diversi dati dal cambio di tonalità tra strofe e ritornelli, scelte di sound e arrangiamento). Perchè?
Sai, fondamentalmente perché avevamo tempo. A livello armonico, il tutto è nato durante la scrittura dei brani. Per quanto riguarda il sound, invece, abbiamo fatto una serie di scelte, prendendoci il lusso di avere un po’ di tempo per lavorarci. Ci sono anche tante versioni dei pezzi: pensa, per esempio, che ”L’ultimo bicchiere” ha quasi una decina di versioni di arrangiamento diverse.
In quel caso, una mattina sono arrivata in studio e ho detto: “Ragazzi, non bisogna avere la batteria in questo pezzo, togliamo tutto!”. In generale siamo stati abbastanza liberi, alla fine non faccio musica che arriva ad un grande pubblico, quindi posso permettermi, finché c’è qualcuno che mi produrrà i dischi, di fare un po’ quello che voglio. Alla fine non è un brano che ad oggi deve passare su una radio mainstream, quindi non è un problema!

Sei stata affiancata nella produzione di “Storie di un appuntamento” da un team d’eccezione: Antonio Cupertino, Riccardo Montanari, Giacomo Carlone. Sapresti raccontarmi un aneddoto che ti ha fatto capire che loro tre erano la squadra perfetta per lavorare al tuo progetto?
Sai cosa, la squadra è nata un po’ per caso! Una volta ho fatto un aperitivo con Ricky (Riccardo Montanari) che è un amico mio e del mio manager. Lui si era proposto di provare a fare delle cose, abbiamo iniziato a casa anche con Jack (Giacomo Carlone) e caspita, mi è piaciuto molto come lavoravano! È stato tutto molto naturale, abbiamo iniziato pensando di fare dei provini e poi è diventato il disco.

Come nasce Karma, il brano più pop dell’album?
Un pomeriggio ero a casa del mio batterista, un polistrumentista fantastico. Ad un certo punto esce questo giro di basso, ci guardiamo e diciamo “fermi tutti!”. Così, in pochi minuti c’ho scritto sopra, pensando che poi sarebbe rimasto come una prima bozza e invece è rimasto praticamente quello.

Siamo in un momento
storico molto
derivativo: possiamo
prendere da epoche
diverse e creare
dei salti nel tempo

Raccontami la storia di questo basso e come mai lo hai voluto all’interno del brano.
Inizialmente avevamo usato un basso synth tanto tamarro, poi siamo passati ad un Rickenbacker del ’72 (mezzo rotto) perché era l’unico in studio. Ci siamo detti :“usiamo questo, poi dopo lo rifacciamo bene”. Non l’abbiamo più rifatto!

Il video di Karma è stato girato a Villa Ponti Greppi, Lecco. Com’è stato tornare a cantare e ballare su un set?
È stato alienante! Oltretutto io, di base, non avevo mai ballato, figuriamoci poi su una mia canzone. Invece mi
hanno coinvolta, non ho potuto tirarmi indietro e il risultato mi piace moltissimo! Ovviamente eravamo tutti
tamponati e non nego che è stato difficilissimo girarlo.

Credi che ad oggi, un brano come Karma sia il giusto compromesso tra una melodia figlia della nostra cultura musicale e un sound vintage/retrò che si sappia mescolare con quello moderno?
Bella domanda! Siamo in un momento storico molto derivativo: possiamo prendere da epoche diverse e
creare dei salti nel tempo. Secondo me la canzone deve avere una melodia che sappia stare in piedi e un’armonia che si incastri in un certo modo per essere considerata tale. Poi ci sono delle canzoni più di sound e di groove, vedi Karma, ad esempio. E mi piacciono! Se le cose si mischiano, ancora meglio! Non trovo che l’una possa escludere l’altra.

Restando in tema di strumenti “veri” (analogici), in De Niro, si sente un solo di chitarra, sporco, grezzo, come diciamo noi musicisti, “ignorante”. Che chitarra è stata utilizzata?
Una chitarra acustica che abbiamo suonato a casa io e Rabbo, il mio batterista, con un microfono del ca…spita su Garage Band. L’abbiamo “distrutta” ed è diventata una chitarra elettrica. Alla fine quello che trovi, usi.

Ad oggi, la Carosello, quanto ha appoggiato il sound del tuo progetto (scelta discografica importante e soprattutto coraggiosa nel 2021)?
In realtà Carosello è una delle pochissime etichette che lavora con gli artisti nel tempo, li fa crescere ed è
molto rispettosa delle scelte artistiche di ognuno. E’ proprio nella diversità che si crea qualcosa. È più facile seguire una corrente che non farsi il proprio “viaggio”.
Vedi ad esempio Coez (compagno di etichetta), che ad un certo punto ha iniziato a fare il suo genere, che non faceva nessuno e questa cosa ha ripagato. Un Calcutta pure, quando è uscito, dopo ne sono uscite altre diecimila copie di Calcutta. Ognuno ha le sue cose da dire e, purtroppo, non è detto che possano incastrarsi bene in questo momento storico. Ciò non significa smettere di scrivere, significa continuare a dire quello che ho da dire, sperando che qualcuno mi ascolti!

In quarantena hai anche imparato a diventare regista dei tuoi video, come in “L’ultimo bicchiere” e “C’est fantastique”. Hai filmato con un iPhone 7. Come mai questa scelta “self-made”?
Guarda, nel primo caso c’era la pandemia e ho fatto di necessità, virtù. Io non l’avevo mai fatto prima però avevo il mio telefono, l’iPad e ho provato. La seconda volta dovevamo fare uscire il pezzo, ma non c’era tanto tempo e quindi ho deciso di farlo io. Adesso mi sto evolvendo: ho scaricato delle applicazioni, dei programmi per montare video, senza togliere il lavoro a nessuno però!

Il brano preferito di BANQUO è “Il momento giusto”. Hai trovato il momento giusto?
Anche se non si dice, è pure il mio brano preferito! Il momento giusto non esiste, è solo una scusa per procrastinare, per non fare.

Sbirciando dagli archivi SIAE abbiamo visto che hai scritto con (“due anni fa”) e per Ermal Meta (“non abbiamo armi”). Come vi siete conosciuti e come è stato lavorare con lui?
Noi ci conoscevamo da quando lui suonava nella “Fame di Camilla”, a me piaceva tanto quella band! Ad un certo punto gli ho chiesto una mano su un pacchetto di pezzi mai usciti (sarebbe dovuto diventare l’EP dei Santa Margaret) . Ci siamo trovati in studio e c’era questo pezzo che io avevo scritto per mio papà (“Non abbiamo armi”). A lui è piaciuto molto! Continuava a dire: “cavolo, questo pezzo qui è incredibile” ed essendo ancora parte di brani inediti e mai pubblicati, ha deciso di prenderlo e cantarlo.

Il duo Schiatti-Verderi, anche dopo il progetto Santa Margaret, ritorna in “Comodini”. Nonostante gli anni e percorsi differenti, com’è ad oggi il tuo rapporto con Stefano?
Stefano, “il maestro”! Un pomeriggio sono andata a casa sua per scrivere ed è uscita “Comodini” in dieci minuti tra i pianti del figlio.

Guardandoti allo specchio, proprio come si vede in copertina, cosa diresti all’Angelica di oggi?
“Grande, sei sopravvissuta! Sei ancora qui, tutta intera!

L’ARTISTA

ANGELICA, al secolo Angelica Schiatti, è una cantautrice originaria di Monza. A 12 anni ha il suo primo colpo
di fulmine musicale: costretta a letto durante le vacanze estive da una malattia, si fa regalare dai genitori una radio.
Si avvicina alla chitarra da autodidatta: all’inizio suona a specchio, prendendo gli accordi dai libri e riproducendoli
al contrario, e quindi si convince di essere stonata.
Fortunatamente chiede aiuto al maestro di coro gospel della sua scuola, che le apre un mondo che tuttora è il suo.
Appena possibile lascia la provincia per raggiungere Milano. Tra jam session allo storico locale milanese Scimmie e
molti altri, inizia dunque a suonare in giro le sue canzoni.
Dopo poco diventa la leader dei Santa Margaret, band con la quale si è fatta conoscere al grande pubblico. Il gruppo
ha registrato un disco, due colonne sonore, suonato al primo maggio di Roma, fatto un tour di due anni, raggiunto la
finale del Premio Tenco per la categoria miglior opera prima, suonato in Piazza Duomo per Ema’s prima dei Duran Duran e vinto gli Mtv Awards New Generation. Tra il 2016 e il 2017 capisce di avere cose da dire in una forma diversa ed estranea alla musica fatta con la band, e inizia così a lavorare sui suoi pezzi da sola, non più sala prove ma a casa con chitarra, pianoforte e pc. Nel 2019 Angelica inaugura la sua avventura solista con l’album Quando finisce la festa, che ha riscosso ottimi feedback di pubblico e critica portandola a esibirsi nei principali club e festival italiani tra cui MI AMI 2019, Home Festival e Zoo Music Fest. Viene inoltre scelta per aprire il tour italiano di Miles Kane, cantautore inglese co fondatore insieme ad Alex Turner dei Last Shadow Puppets, e stringe una partnership con Gibson per il tour e la registrazione dell’album. A novembre 2019 collabora con l’attore Giacomo Ferrara (lo “Spadino” dell’acclamata serie Netflix Suburra) per il singolo “Vecchia novità”. Nel 2020 pubblica i singoli “C’est Fantastique”, “Il momento giusto” e “L’ultimo bicchiere”, trittico di brani che anticipa la pubblicazione, a febbraio 2021, del nuovo album di inediti Storie di un appuntamento.

SOTTOBANQUO a cura di Giuseppe Senia

Interessante all’interno di “Storie di un appuntamento” è l’attenzione e la cura data al sound, che non si risparmia
dall’essere sporco, distorto e “ignorante” nel gergo più comune.

La storia del basso di “Karma”
Come è solito fare, nella fase embrionale di ogni produzione musicale si utilizzano degli strumenti “fake” per emulare
quelli da registrare in fase poi di sviluppo, al fine di farsi un’idea generale del brano. Questa consuetudine l’abbiamo trovata in “Karma”, probabilmente la canzone più pop del disco.
Inizialmente era stato utilizzato un basso synth “tanto tamarro” non troppo convincente, tanto da passare ad un Rickenbacker del ’72 mezzo rotto. Come Angelica stessa afferma, era l’unico in studio di registrazione, approfittando di
una situazione apparentemente d’emergenza rivelatasi poi provvidenziale.

L’assolo di chitarra in “De Niro”
Quinto brano dell’album, figlio del sano citazionismo, “De Niro” porta la sola firma di Angelica!
Scolpito nel presente ma con un forte legame con gli anni ’60 e al tipico 12/8 terzinato, si notano timpani, archi e sviolinate sui ritornelli. Non manca il legame col presente, visibile anche attraverso l’hi-hat, a tratti trap, nella seconda
strofa. Caratteristico è l’assolo di chitarra: apparentemente elettrica, in realtà è un’acustica registrata, con un microfono
molto economico, su Garage Band insieme al batterista “Rabbo”. Angelica dice testualmente di averla “distrutta”, lasciando intendere l’intento di trasformare il suono di quest’ultima in un qualcosa di nuovo, distorto e totalmente slegato dal tipico suono della sei corde. Ancora una volta il tema della sperimentazione e della ricercatezza musicale è al centro di questa interessante artista che merita, obbligatoriamente, più di un ascolto. Brava!

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