Quando il “contatto” di stili genera l’originalità

26 Gennaio 2022

A tu per tu con Davide Shorty, rivelazione dell’ultima edizione del Festival di Sanremo

Testo Emanuele e Giuseppe Senia

Secondo classificato nella categoria “Nuove Proposte della settantunesima Edizione del Festival di Sanremo, vincitore del Premio della Sala Stampa “Lucio Dalla”, del “Premio Enzo Jannacci Nuovo IMAIE 2021” e del “Premio Lunezia per Sanremo 2021” per il valore musical-letterario: Lui è Davide Shorty, cantautore, rapper e producer siciliano, che con il suo brano, “Regina”, si è distinto come vera e propria rivelazione musicale sul palco del Teatro Ariston.
Folta chioma scura, occhi grandi e sinceri, sensibilità e spontaneità vivace, e soprattutto uno stile musicale raro e sofisticato, che gli ha permesso di compiere un viaggio di traguardi che lo ha portato fin qui.
Un artista che fonde diversi sound, dal rap al soul, dal funk alla tradizione cantautorale italiana, con una naturalezza e una originalità che lo rendono fortemente distinguibile e riconoscibile, dal respiro internazionale.
Per questa sua abilità nel mixare i generi è stato, infatti, definito “fusion”, aggettivo che l’artista ha scelto anche per intitolare il suo nuovo album, “fusion”, appunto, in uscita il 30 aprile e preceduto da “fusion a metà”, prima parte del suo progetto discografico, composto da 7 brani, con la partecipazione di artisti del calibro di Koralle – side project di Godblesscomputers -, Dj Gruff, Gianluca Petrella – trombonista italiano jazzista di fama internazionale -, Amir Issaa e Davide Blank.
Un uomo che non ha paura di mostrarsi com’è, con le sue immense doti, ma anche le sue fragilità, che si è lasciato andare ad un tu per tu, una conversazione esclusiva che parla di musica, di vita, di curiosità, aneddoti, incontri e “contatti”, a partire da quelli musicali, tra vari generi musicali, che hanno dato vita al suo stile fusion, fino a quello più profondo e radicato, ossia il rapporto con la propria terra d’origine, la Sicilia.
Davide Shorty, dunque, è forse l’esempio più chiaro e brillante di come le relazioni, le contaminazioni, i “melting pot” a livello di note, accordi, stili e tendenze possano generare un qualcosa di unico, autentico, rivoluzionario, senza tempo.

Come stai Davide?
Tutto molto bene, è stata una bellissima esperienza: mi sono guardato attorno, ho spulciato l’Ariston nel modo più attento possibile, ho guardato la scenografia, ho respirato quell’aria, ho cercato di sentire l’energia che c’è lì
dentro ed è stato molto emozionante.

Come hai vissuto il lockdown?
Guarda, ho cercato di sfruttare il tempo che avevo finalmente a disposizione per guardarmi dentro, scrivere, meditare e curarmi. Ho prodotto veramente tanti beats e realizzato un mixtape uscito su Bandcamp. Sentivo davvero il bisogno di farli uscire, chiuso nella mia stanzetta di Londra. Ho comprato un basso, mi sono messo a scrivere canzoni, alcune delle quali sono raccolte nel mio nuovo album. Ho praticamente passato questo periodo in Inghilterra, ho beccato pure il Covid con tutti i sintomi del caso, però fortunatamente mi sono ripreso nel giro di un paio di mesi.

Che rapporto hai con i social? Quanto tempo gli dedichi?
Più di quello che dovrei a volte. I social sono un’arma a
doppio taglio, nel senso che rappresentano un bellissimo modo per interagire con le persone che mi seguono
e il fatto di avere una piattaforma e una voce con cui
comunicare tutte quelle che sono le mie esperienze, la
mia musica, è un dono. Allo stesso tempo sei esposto ai
commenti di tutti, diventa quindi un meccanismo che
secondo me può nuocere alla salute di un essere umano. Bisogna stare attenti, dimenticarsi dei numeri e,
quando ci sono dei commenti negativi, riuscire a farseli
scivolare addosso, specialmente quelli non costruttivi.
Io penso personalmente che i social non facciano molto bene allo spirito e che siano sicuramente un modo
per pompare l’ego, in un modo o in un altro.

Credi che ad oggi, in un periodo storico come questo, il valore dei social sia fondamentale per emergere?
Penso sia importante, ma non fondamentale: contano le persone ed il loro contenuto. I social sono uno
strumento, lo strumento può essere semplicemente un mezzo.

Seguendoti (sui social) è impossibile non aver notato la tua espressione subito dopo aver fatto le prove con
l’orchestra di Sanremo. Che effetto fa sentire il proprio brano suonato dai migliori musicisti italiani?

Inspiegabile, davvero, è qualcosa di veramente poetico. L’organico dell’orchestra è composto da 65 elementi, è
stato pazzesco. Devo dirvi che mi guardavo intorno e cercavo lo sguardo delle persone che stavano suonando, ne ho incrociato qualcuno, e devo dire che mi sono sentito ben accolto e ben voluto. Quando sono entrato nella sala in cui abbiamo fatto le prime prove, la prima cosa che mi sono promesso di fare è stata quella di dire “grazie” ad ogni singola persona, ogni singolo musicista, perché penso che il tempo, lo studio e la preparazione individuale di ogni membro dell’orchestra sia qualcosa di inestimabile. Questo mio gesto è stato apprezzato e applaudito e mi ha fatto davvero piacere.

Credi di averli fatti contenti con un brano finalmente fuori dagli schemi di mercato?
La bellezza penso sia estremamente soggettiva, ma ciò che sicuramente è oggettivo è che la gratitudine fa
bene, il fatto che la mia sia arrivata e mi abbiano risposto con un applauso, mi ha fatto veramente bene. Molti
musicisti dell’orchestra sono venuti addirittura a farmi i complimenti di persona, hanno espresso il loro apprezzamento nei confronti del brano e questa è una cosa meravigliosa, che non dò minimamente per scontato. Credo che la sezione ritmica abbia apprezzato, Roberto Gallinelli e Cristiano Micalizzi (bassista e batterista dell’orchestra di Sanremo) li ho visti abbastanza divertiti.

“Regina”: com’è nata?
È nata un paio di anni fa, durante una session di una settimana: io e i ragazzi della mia band, la “Straniero Band”, siamo stati invitati da Andrea Guarinoni, un talentuosissimo recording engineer, che ho conosciuto tre anni fa. Ci ha invitati in questo studio in una baita vicino al Lago Maggiore e durante una mattinata è nata “Regina”, una canzone d’amore, che parla di una ragazza, la mia ragazza in quel periodo, Cèline. Lei aveva passato dei giorni con noi a fare delle foto, dei
video: è un’artista a 360 gradi, fa l’attrice, la modella, una ragazza dall’occhio artistico molto spiccato. Mentre i ragazzi suonavano, dopo che lei se n’era andata, ho scritto la melodia e il testo nel giro di mezz’ora. Il brano era chiuso realmente nel giro di un’ora e l’abbiamo registrato subito. Alla fine della giornata abbiamo riascoltato la registrazione e ci siamo resi conto che quel brano aveva qualcosa di speciale. Io ad un certo punto ho avuto questa visione, in cui vedevo “Regina” suonata dall’orchestra di Sanremo e ho detto hai ragazzi: “Vi immaginate sto pezzo a Sanremo?” e loro sono impazziti. Questa visione c’è praticamente stata fin dall’inizio.

Perché l’idea di proporre a Sanremo un brano scritto due anni fa?
Vi rispondo davvero in maniera secca e precisa. Ho avuto, come già detto, una visione sul quel brano. Me lo sono immaginato subito sul palco di Sanremo con l’orchestra. Quando l’ho proposto alle persone che lavoravano con me, ho espresso il desiderio di portarlo sull’Ariston dopo averlo scritto e mi è stato detto: “È un brano troppo raffinato, è difficile che lo scelgano ma soprattutto che lo capiscano!”. Io non ho accettato mai questa opinione perché l’ho visto, l’ho sentito. “Regina” è un brano con delle influenze cantautoriali italiane molto spiccate, ma allo stesso tempo ha del funk, soul, jazz, tutta quella musica che io ascolto, che è meno italiana. Ha un misto di cose, ma allo stesso tempo quell’italianità che gli consente di entrare in un contesto come quello di Sanremo, così tradizionale.

I social sono
uno strumento,
lo strumento può
essere semplicemente
un mezzo.

Il brano è un chiaro esempio di melting pot musicale. Qualcuno ti ha definito “fusion”. Sul web anche i tuoi colleghi come Ainè e Serena Brancale hanno indossato insieme a te una maglietta con questa parola. Ti senti davvero così oppure, nel momento in cui ti è stato detto, l’hai presa come una critica? In realtà mi hanno passato un assist meraviglioso, soprattutto quando certi personaggi hanno detto “fusion”. Il mio genere non è fusion, ed è chiarissimo. Nel momento in cui mi è stato attribuito questo genere l’ho presa esattamente come vi ho detto: io penso che alcune critiche che mi sono state mosse non abbiano alcun fondamento, anche perché sappiamo benissimo che uno dei pilastri della fusion è stato Chick Corea, che ci ha lasciati poco tempo fa. Se vogliamo usare il termine letterale, sì è vero, sono un misto di tante cose, un melting pot di tanti generi assolutamente. Un artista
che fa questa cosa alla perfezione in Italia è Ghemon, prima di lui Tormento e prima ancora Neffa. Non è una novità che si possano mescolare i generi in un modo originale e con una importante identità. Penso che la musica, in fin dei conti, siano ingredienti che si mescolano.

A proposito di melting pot, circa 11 anni fa ti sei trasferito a Londra. Hai sempre detto che la Sicilia ti stava un po’ stretta. Perchè? Raccontaci un po’. Come ben sapete, da siciliani e musicisti, ci viene chiesto spesso: ”Cosa fai di mestiere? Il musicista? – no ma dai – Intendo realmente, cosa fai di mestiere?”. A me è successo tantissime volte, tanto che mi è stato detto: ”Ma chi te lo fa fare? Ne sei realmente sicuro? Quello non è lavoro, ti stai solo divertendo”. Questo è il discorso, tutto questo mi stava stretto: la chiusura mentale, il pregiudizio, il mio modo di essere, di vestire, di portare i capelli, veniva preso di mira e giudicato da tanti occhi e bocche. La Sicilia fortunatamente non è tutta così. C’è tanta bellezza, tanta accoglienza, la Sicilia è un esempio primordiale di melting pot.

L’esperienza londinese ti ha messo in contatto con realtà sicuramente diverse e più favorevoli per chi vuole fare arte. Come hai visto Londra con gli occhi di un ventenne allora e come la vedi oggi? Quanto ti senti cambiato e cos’hai imparato?
Londra la vedevo grandissima a vent’anni, a tratti mi faceva un po’ paura, ma è proprio per questo motivo che volevo andarci a vivere. Era meravigliosa, colorata, la pensavo come qualcosa di irraggiungibile: volevo dimostrare a me stesso di poterla raggiungere. Scrivere in inglese, suonare con musicisti molto più forti di me, migliorarmi, diventare l’artista che sognavo di essere, esprimermi al 100% in una lingua che non fosse la mia: questi sono stati i motivi che mi hanno spinto ad andarmene dalla Sicilia. E’ stata più incoscienza che coraggio, l’ho fatto per forza di cose, non avevo scelta.
Ho avuto modo di conoscere realtà che non pensavo di poter esserne all’altezza, invece ho aperto concerti, fatto il corista per grandissimi artisti della scena inglese, quindi vivere a Londra mi adatto proprio delle opportunità li lavoro, di carriera che a leggerle nel mio curriculum mi fa strano. Senza di lei, tutto questo non sarebbe successo. Adesso la vedo un po’ come la mia città, in maniera molto simile a come vedo Palermo, perché mi ci trovo bene, la conosco bene, mi ci muovo ad occhi chiusi, è la città che mi ha accolto e che mi ha dato modo di trovare ed essere me stesso.

In questo numero del nostro magazine il tema centrale è il contatto. Ad esempio quello con la propria terra d’origine, la Sicilia. Ne parli anche in “Straniero” con “Terra”. In quel brano si sente da un lato la nostalgia di casa ma anche la consapevolezza di chi ha scelto di essere straniero per seguire i suoi sogni. Che rapporto hai oggi con la Sicilia? Ci torni spesso? Nonostante gli impegni, riesci ancora ad organizzarti con i tuoi amici per una birra?
Assolutamente sì, per me la Sicilia è fondamentale. In un pezzo del disco nuovo ti cito un verso: “Ho fatto pace col quartiere e ho rotto le sue morse”: ecco, queste parole riassumono alla perfezione il mio aver fatto pace con la mia terra e adesso riesco ad ascoltarne l’amore, piuttosto che le sue morse. In realtà, una delle cose che mi manca di più è andare al mare per fare il bagno la mattina presto, sentire l’acqua fresca sulla pelle e nuotare. Da piccolo facevo nuoto agonistico e per me tuffarmi in acqua tra le setto/otto del mattino, quando l’acqua è piatta e non caldissima, è come un ricongiungimento con la mia Sicilia.

Altro siciliano, rapper legato alla sua terra, è Johnny Marsiglia che conosci molto bene. Avete collaborato più volte e condiviso un tour con i Funk Shui Project. Come vi siete conosciuti e cosa pensi di lui? “Johnny è il rapper preferito del tuo rapper preferito e quando Johnny Marsiglia è il tuo rapper preferito, Johnny è il suo rapper preferito”. Quando eravamo piccoli in realtà eravamo rivali, ci siamo anche affrontati in freestyle dove lui mi ha fatto il culo ripetute volte, perché era davvero più forte di me. Devo dire che con gli anni poi ho recuperato e finalmente mi sono messo al livello, ma lui, già ai tempi, era veramente un fuoriclasse. Eravamo in crew diverse ed io ero molto sfacciato nel mio modo di fare, nonostante fossi mega insicuro, tanto che lo camuffavo con l’essere molto diretto. Quando uscì il suo disco “Radiografia” come Johnny Killa, gli dissi che non mi era piaciuto, ma in realtà fu così semplicemente perché
non lo avevo capito. Più avanti, a distanza di cinque/sei anni, gli scrissi un messaggio dicendogli che avendo riascoltato il suo disco l’avevo capito e che era avanti anni luce. Una qualità che mi fa impazzire di Johnny, nella sua concezione del ritmo, è il suo essere “seduto” sul beat: il modo in cui lui si siede è leggermente indietro, ma mai troppo, è praticamente perfetto, sia dal punto interpretativo che da quello lirico. È super onesto nel modo in cui scrive e, per quanto mi riguarda, sono felice che lui mi abbia riscritto dopo anni, quando già a Londra, dicendomi che ero diventato una “bestia”, e altri complimenti. Successivamente, quando io tornai a Palermo, lo invitai a un concerto dei Retrospective For Love per fare una strofa: questa cosa è successa molte volte. Siamo arrivati anche a fare un tour insieme e con i Funk Shui Project: la sua musica, suonata, è pazzesca. Io e lui, dopo esserci fatti i complimenti ed esserci ritrovati, siamo diventati ottimi amici e sul palco abbiamo una chimica incredibile. Sarebbe molto bello fare in futuro un disco insieme, sarebbe stupendo.

Periodo post X Factor: buio per circa un anno e mezzo. Cos’è successo?
Ve lo racconto molto volentieri, perché parlare di queste cose credo sia la chiave per superarle. Noi siamo fortunati perché abbiamo la musica come valvola di sfogo e mezzo di espressione, ma penso che comunicare e raccontare determinate storie serva anche a sdoganarle ed eliminare la parola taboo su una cosa normalissima per l’essere umano, che è la depressione. Il mio periodo di black out è durato più o meno un anno e mezzo, fino a subito dopo l’uscita di straniero, prima del tour. Era dovuto a una grande confusione: sicuramente c’è stato uno “sbalzo chimico” nel mio sistema, l’aver pompato così tanta adrenalina per tre mesi di fila e poi averla persa tutta così velocemente, sicuramente m’ha creato un grande scompenso. Vedere il modo in cui molte persone che non mi hanno mai calcolato nella vita, o che mi snobbavano, dire cose del tipo:” Noi ci abbiamo sempre creduto” o cose del genere mi ha fatto
tanto male. È stato strano perché ho visto tanta falsità e ipocrisia: avrei preferito delle scuse, che non ci sono mai state. Alcuni dei traumi che queste persone hanno creato penso si ripresentano nel modo in cui ho a che fare con certe persone, nella paura di essere tradito, in un certo senso. Purtroppo è una cosa che si è riproposta tante volte nella mia vita ed è un mio problema, un qualcosa che devo mettere a posto con la terapia. Penso sia fondamentale prendere coscienza di tante cose: paradossalmente stare male mi ha fatto bene perché mi ha dato modo di conoscermi a fondo. Sono molto fiero della persona che sono oggi, ancora ho tante cose di cui non vado fiero, ma sono orgoglioso dei tanti piccoli traguardi che ho raggiunto.

Tornando ad oggi, nei tuoi testi, nelle interviste e suoi social sei sempre molto vicino e attento a tematiche importanti quali il razzismo e la dislessia di cui tu stesso dici di aver sofferto. Viviamo ancora in una società razzista? Quando riusciremo, secondo te, ad uscirne da questa piaga sociale? Assolutamente sì, viviamo ancora in una società razzista, poiché ci troviamo in un sistema che è costruito sul colonialismo. La storia è scritta da persone per la maggior parte bianche e tralascia ciò che le minoranze
etniche hanno significato per la storia dell’umanità.
E’ anche chiaro che molto spesso fa comodo avere un privilegio, come quello bianco, che una persona con la carnagione più scura, specialmente afro discendente o araba o indiana, non ha. Viviamo in una società che
marcia spesso sul razzismo e sul sessismo, quindi quando si riuscirà ad uscirne penso sarà un processo molto
lungo. Bisognerebbe sicuramente affrontare il tema, in maniera molto più approfondita, nelle scuole; educare
alla diversità; sensibilizzare, in generale, molto di più.

Hai preso parte al brano “Non respiro” con Amir Issaa e David Blank. Credi che la musica possa combattere il razzismo, in quanto forte canale comunicativo?
Certo che sì. L’arte in generale è un mezzo comunicativo veramente potente, quindi penso che gli artisti,
chi ha una voce e un mezzo, come la musica, in questo caso, lo utilizzi per sensibilizzare. Prendere una posizione sociale, per un artista, è fondamentale. Combattere tutto ciò che è odio, intolleranza, razzismo, omofobia, dovrebbe essere combattuto grazie alla musica, come una chiara presa di posizione.

Altro tema è quello della dislessia, molto delicato e spesso preso sotto braccio. Ti va di parlarne?
Io ho scoperto di essere dislessico in età adulta, all’università. Da piccolo magari certe volte mi sentivo stupido, facevo fatica a leggere o ad assimilare informazioni, ma è giusto dire che ci sono diversi tipi e livelli di dislessia e ognuno la vive a modo proprio, ma soprattutto ci sono persone e personalità diverse. Nel mio caso la dislessia è stata un modo di inseguire le parole e il rap, da questo punto di vista, mi ha incentivato, perché giocare con le parole era terapia. La dislessia non mi piace vederla come un disturbo, ma semplicemente come una modalità diversa di apprendimento: una persona dislessica ha inevitabilmente un modo diverso di elaborare le informazioni e non ha nulla a che fare con
l’intelligenza di un essere umano.

L’ARTISTA

Davide Shorty è un cantautore, rapper e producer di Palermo capace di far convivere la sua inconfondibile voce soul con sonorità innovative e melodie contaminate da jazz e rap. Dopo varie esperienze nella scena hip hop siciliana nel 2010 si trasferisce a Londra per intraprendere un nuovo percorso musicale e nel 2012 fonda la band Retrospective For Love, con la quale si fa conoscere nel Regno Unito. Nel 2016, dopo essersi posizionato 3° alla nona edizione del talent show X Factor (Dicembre 2015), il cantante siciliano firma per Macro Beats, una delle più importanti etichette indipendenti italiane che pubblica il suo primo album ufficiale “Straniero”, lavoro che lo porta ad esibirsi sui palchi di tutta Italia parallelamente alle prestigiose collaborazioni con artisti del calibro di Robert Glasper, Jordan Rakei e Mr Jukes (Bombay Bicycle Club).
Nel 2018 pubblica insieme ai Funk Shui Project l’album “Terapia di Gruppo”, che viene apprezzato molto da pubblico e critica tanto da portare il progetto ad esibirsi in più di 40 date in tutta Italia incluse i prestigiosi opening internazionali a Chinese Man e Daniel Caesar (grammy award 2019). La fortunata collaborazione tra Davide e i Funk Shui Project continua nel 2019 quando esce per Totally Imported l’album “La Soluzione” che conferma la sinergia artistica tra il cantante e il collettivo torinese. Al disco segue la pubblicazione del reboot dello stesso: “La Soluzione Reboot” con all’interno l’inedito “Carillon” feat. Roy Paci. Sempre nel 2019 collabora con Daniele Silvestri nel brano “Tempi modesti”, singolo di lancio dell’album “La terra sotto i piedi” dello stesso Silvestri, mentre lo scorso 10 luglio è uscito “CANTI ANCORA?!”, singolo che vede la collaborazione con il suo ex giudice e amico Elio.

SOTTOBANQUO a cura di Emanuele Senia

Durante l’intervista, Davide, ci ha raccontato alcune chicche e aneddoti riguardo la copertina di “Regina” e la “Straniero Band”, motivo per cui abbiamo ritenuto opportuno riportare le sue stesse parole:

La “regina” in copertina
È la mia ex ragazza, Cèline. Siamo rimasti in ottimi rapporti, proprio per questo, quando ho deciso di dare un volto a Regina, l’ho chiamata e le ho chiesto se le andasse di essere la copertina del singolo e la mia controparte nel videoclip. Sono molto felice di aver fatto questa scelta, anche se devo dire che nel mio team, inizialmente, c’era qualche scettico, ma alla fine, mi sono sentito libero di chiamarla.
Lei aveva passato dei giorni con noi a fare delle foto, dei video: è un’artista a 360 gradi, fa l’attrice, la modella, una ragazza dall’occhio artistico molto spiccato.

L’importanza di un team di lavoro: la “Straniero Band” dietro le quinte Spesse volte io ho prodotto un beat o scritto un pezzo alla chitarra e l’ho passato a loro. Ad esempio quando ho
partorito “STRANIERO”, molti dei pezzi dell’album li ho scritti con Claudio Guarcello, che è il pianista, alcuni da solo, altri chitarra e voce, o ad esempio “sentirò” alla tastiera. Invece tre brani del nuovo disco li ho scritti con Emanuele Triglia, che è il bassista, di cui uno è rimasto sul beat di Emanuele, dove tutti gli strumenti sono stati suonati
da lui, mentre gli altri due li abbiamo proprio riarrangiati con tutta la band e lì io sono stato un po’ co-producer di Emanuele perché ho cercato di dare una direzione al tutto. Ho caricato tutte le tracce sul sequencer e sono stato io personalmente ad editarle, a cercare di capire, ad esempio, come volevo che la batteria suonasse all’interno del mix. Devo dire la verità, mi sento molto fortunato perché lavoro con dei ragazzi che, al di là dell’essere dei musicisti iper preparati, sono veramente fortissimi a livello umano.

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