“A che servono questi quattrini?”, a rispondere è Socrate

22 Novembre 2022

Aristotelicamente parlando l’uomo è «un animale sociale», e come tale non può esimersi dal creare strumenti d’ordine civile qual è il denaro…ma è davvero così?

A mettere in discussione uno dei strutturali caposaldi sociali fu Armando Curcio con la sua commedia “A che servono questi quattrini?”, debuttata nel 1940 con la compagnia di Eduardo de Filippo al Teatro Quirino, e ora riportata in scena alla Sala Umberto da Andrea Renzi, una regia dall’attenta cura per ogni particolare, capace di spegnere prevenuti sospiri di nostalgia per De Filippo;  un racconto storicamente delineato ma concettualmente eterno, in cui il pubblico è invitato a riflettere sul fittizio stato di natura che l’uomo ha attribuito a questo mezzo economico.

Ad aprire fisicamente il sipario, anticipando simbolicamente il suo successivo ruolo  di burattinaio, è un marchese dal nome parlante Eduardo Parascandalo (Nello Mascia), detto il ‘Professore’, elegante nel suo completo nero adornato da cilindro e sciarpa bianca, di spicco rispetto al grigiastro muro semi-crepato della scenografia, e rispetto alle spente tonalità cromatiche delle vesti di Vincenzino (Valerio Santoro), un giovane analfabeta che il maestro, come un tipico filosofo greco, ha preso sotto la sua ala, infondendogli la sua stoico-socratica visione del mondo, che lo spinge ad allontanare ogni piacere materiale («Bisogna allenarsi all’ozio per combattere la noia del risposo domenicale»), al fine di un ritorno all’essenza stessa della vita senza sociali costrutti e illusioni da essi derivati; speculazione filosofica che Vincenzino decide di adottare come stile di vita, licenziandosi e tentando, goffamente, di diffonderla a chi prova a riportarlo su quella che sembra le ‘retta via’, come sua zia Carmela (Salvatore Caruso), disperata, in quanto povera e bisognosa di soldi, creando, con lei, esilaranti scambi di battute alla Stanlio e Olio.

Una processione di personaggi, tra i quali ‘l’antagonista’ principale Ferdinando De Rosa (Ivano Schiavi), fratello della donna amata dal protagonista Rachelina (Loredana Giordano), contrario alla loro unione, bussano alla porta di zia Carmela, per risolvere economiche questioni rimaste in sospeso con suo nipote; pratici nodi irrisolti nella vita del discepolo che il suo mentore, dionisicamente arrivato creando scompiglio  e mettendo in crisi il saldi valori tradizionali, con una abile raggiro ben studiato, riesce a sciogliere, creando l’illusione di un Vincenzino ricco e disposto ad aiutare economicamente coloro che gli stanno intorno, risultando, infine, un umanizzato Puck shakespeariano, vero e proprio motore dell’azione scenica, con la licenza, altresì, di rompere la quarta parete, in grado di intrecciare le convenzionali sorti dei personaggi e di slegarle moralmente illuminate e libere dalle abituali credenze.

I atto da 90’, una messinscena dai toni e dalla gestualità dinamici, tipici della commedia napoletana, rivestita dal velo riflessivo ed esistenzialista della drammaturgia classica; stilisticamente e narrativamente divisibile in due parti. Della prima, è la parola ad essere la protagonista: un solo ambiente scenografico, casa di Carmela, scarnamente riempito solo da un tavolo e due sedie, alle cui spalle si erge un’alta lastra grigia; scenografia iniziale povera, come lo è la vita dei proprietari, sul cui sfondo si destreggiano principalmente la zia, Vincenzino e Parascandalo, parlando e discutendo sulla natura dei soldi; dialoghi-scontro tra i tre, alternati a filosofici monologhi del Professore; la trama poco si delinea in questo prima fase, ma è un incipit dialettico necessario alla comprensione di ciò che avverrà dopo.

Entrati nel vivo della storia, il ritmo timidamente accelera, a dominare la scena sono le sequenziali dinamiche generate dalla beffa organizzata da Parascandalo, e anche il resto dei personaggi assume un ruolo ben preciso nel quadro generale. Segue al ricco cambio di status di Vincenzino, il cambio di abiti e di scenografia, rappresentante, ora, l’elegante e suntuoso salotto di Rachelina, in cui il giovane compare signorile e ben vestito.

Scenografia, sceneggiatura e costumi sincronici: ogni elemento è dipendente dall’altro, in perfetto equilibrio in una cornice scenica studiata nei minimi dettagli.

Perfezione architettonica che non sarebbe stata tale senza la perfetta comprovata capacità attoriale di Nello Mascia e Valerio Santoro, capaci di ricreare quella chimica tra maestro e discepolo vivamente rievocante il duo comico Totò-Ninetto Davoli in “Uccellacci e Uccellini”; e l’aurea di magia di una fiaba fuori dal tempo, anche se qui, il tempo c’è: era il 1940, era il passato, ma era già anche il 2022, il nostro presente, un monito profetico, che di nuovo, accomuna Curcio e Pasolini.

«Il denaro è una disgrazia, è una malattia, e come ogni malattia porta i suoi disturbi»

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