Claudio Boccaccini, Aristofane moderno, parla di “Donne al parlamento”

1 Dicembre 2022

Poliedrico come la varietà delle sue messinscene, Claudio Boccacini, classe ’53, attore, regista, autore e fondatore nel 1987 della scuola di teatro “La stazione”, con Qui o altrove (1985) di Robert Pinget firma la sua prima regia a metà degli anni ottanta, e da allora conta la direzione di oltre 150 spettacoli.

Tanti i grandi nomi che la sua formazione può vantare: è stato allievo di Nikita Sergeevič Michalkov e Josef Svoboda, e aiuto regia di Giancarlo Sepe e Marcel Marceau.

Solcando il palco dei maggiori circuiti teatrali nazionali, ha portato in scena spettacoli dalla diversa natura: dai grandi autori classici, come Dostoevskij e Pirandello, ai maggiori esponenti della drammaturgia italiana contemporanea, quali Mario Moretti e Giuseppe Manfridi.

Una ricca produzione che non tralascia un interesse, ancora acceso, per i classici greci: ha lavorato infatti, su diversi adattamenti, tra i quali gli Uccelli di Aristofane e la Medea euripidea; tornando, nel 2019, sempre su Aristofane, decidendo di attualizzare concettualmente la commedia Donne al parlamento, in cui il regista, facendo sua l’ideologia del commediografo greco, vestendo i panni di un Aristofane dei giorni nostri, elargisce una critica al vigente potere politico italiano.

Un successo tale che Boccaccini ha deciso di riproporla ora, dopo tre anni, al Teatro Marconi di Roma dal 2 al 4 dicembre, attuando una rinnovata attualizzazione in linea con gli ultimi cambiamenti socio-politici.

Proprio in occasione dell’imminente ‘seconda edizione’ abbiamo deciso di ascoltare dalla voce stessa del regista le parole di presentazione della replica, soffermandoci su come sia nata l’esigenza di una ri-messinscena; indagando, inoltre, sul suo personale e lavorativo rapporto con i classici; e non potendo mancare, infine, di chiedere a un comprovato professionista come lui, che ha attraversato e vissuto diverse fasi evolutive e involutive del panorama teatrale, dagli anni ottanta a oggi, una riflessione sulle sorti future del teatro.

Attore poi regista, cosa l’ha spinta al cambiamento?

Mi sono avvicinato al teatro recitando, abbastanza casualmente; poi prevalentemente facendo l’assistenza a Giancarlo Sepe, grande regista, ho capito che forse quella era la mia strada. Inizialmente ho fatto tutte e due, facevo le regie dei miei spettacoli in cui ero anche attore, andando avanti ho fatto solo di regia, perché questo era il mio percorso, la sintesi di una serie di cose: mi ero occupato di fotografia, di recitazione, di scrittura, tutte queste cose insieme portavano fatalmente alla regia teatrale.

In questa lunga carriera qual è stato, e qual è, il suo rapporto con il classico greco?

È la seconda volta che metto in scena Donne al parlamento, feci gli Uccelli a Ostia Antica e una Medea. I tragici per un verso e le commedie per l’altro sono incredibilmente attuali. I Greci avevano studiato l’animo umano profondamente. Pensiamo che i termini della psicanalisi nascono tutti dalle tragedie greche, da Elettra e da Edipo. Sono stati precursori di un modo di pensare e di vivere. Le commedie sono geniali, Aristofane racconta una storia molto simile a quello che sta venendo ora in Italia.

Nel 2019 ha scelto di portare in scena Aristofane, come l’ha scelto?

Penso che tra i commediografi sia il più interessante. Ha fatto le Nuvole, le Rane, gli Uccelli…tutte opere che mi piacciono. Lo trovo molto acuto, molto critico, rispetto anche a un’attualizzazione.

Perché ha deciso di riproporre Donne al parlamento proprio ora?

Ho pensato di rifarlo perché era andato bene, era stato un successo. Inoltre i recenti fatti politici italiani mi hanno dato una mano, perché è la storia di donne che, stanche di mal governi maschili, decidono di prendere il potere.

Il messaggio è in chiave attuale?

Si, il messaggio è in chiave attuale. Abbiamo messo dentro dei riferimenti al presente perché è giusto farlo con Aristofane. Lo diceva anche Dario Fo che Aristofane fatto oggi deve avere riferimenti al presente, perché è uno che parla male del potere, quindi, parlando male del potere, proponendolo oggi, bisogna parlar male del potere di oggi, per renderlo attuale e per non tradire l’istinto profondo di quelle opere.

Di conseguenza, non parliamo di una trasposizione fedele?

Il testo è stato adattato da me ed è stato attualizzato: per esempio, improvvisamente, si parla del reddito di cittadinanza, parliamo di cose attuali imprevedibilmente; questo fatto fa molto ridere.

Tra la prima e la seconda messinscena cosa cambia?

Nel 2019 c’era il movimento 5 stelle che folleggiava, quindi c’erano una serie di riferimenti a loro, come nuovo elemento di potere; ora c’è la Meloni e i riferimenti sono chiaramente a lei. Per il resto lo spettacolo è più o meno lo stesso.

Il cast?

È cambiato: metà attori erano presenti anche nel 2019, l’altra metà sono volti nuovi. Sono undici persone, sei donne e cinque uomini, sono molto coesi. Cerco di creare un clima dove si lavora bene, perché quando c’è armonia si lavora sempre meglio.

Uno spettacolo su diversi livelli: satirico, riflessivo e comico

Si è così: è uno spettacolo, di base, comico, però al suo interno ha elementi di riflessione.

Teatro e futuro, cosa ne pensa?

Purtroppo non bene, perché il lock down si è abbattuto su una situazione già in crisi. Chiaramente dopo il Covid, di fatto, non siamo riusciti a tornare ai livelli in cui eravamo una volta. È ripartito tutto, lavoriamo, però i recuperi, gli incassi e le produzioni sono inferiori, le risorse anche, se continua così i teatri continueranno a chiudere. Nell’ultimo periodo solo a Roma ha chiuso l’Eliseo e Piccolo Eliseo, la Cometa, il Traiano, veramente assurdo. Teatri chiusi che non vengono rimpiazzati. Spazi che prima erano piani e che ora non esistono più, se continuiamo con questo andamento il problema diventerà sempre più serio.

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