“Il teorema della rana” per salvare il teatro

4 Dicembre 2022

In un intricato artificio stilistico-narrativo di teatro nel teatro, “Il teorema della rana” , adattamento attualizzato e personalizzato dell’opera di N.L. White, proposto al teatro Vittoria dal 22 novembre al 4 dicembre, è uno paradossale varietà di 90’ dalla vena satirica, rappresentante la difficile strada economicamente impervia che il teatro, e con lui ogni spazio culturale, da diversi anni a questa parte si trova a percorrere – o a ripercorrere-; un odierno spaccato di un quotidiano non così artefatto, in cui realtà e fantasia si fondono, influenzando l’uno il piano dell’altro, perdendosi nei labili confini di ogni possibile reale.

Sul palco, il palco del Vittoria, scenograficamente sé stesso, con i suoi cavi, bauli, scale e riflettori smontati; Daniele Gargiulo (Luca Ferrini), il direttore, entra alle spalle del pubblico in chiamata con il Ministero della Cultura, con l’intento di farsi revocare, inspiegabilmente, dei sussidi da esso ricevuti. Durante la conversazione veniamo a sapere che un certo Mattia Badalamenti (Alberto Melone) è morto; ma poco dopo, eccolo entrare in scena. Da questo momento la trama inizia a prendere forma, al contempo, perdendo la sua unidirezionalità: Gargiulo, con il cugino Raul (Simone Balletti), per far fronte alle spese di mantenimento del suo teatro, ispirato dal libro di spionaggio “Il teorema della rana”, aveva inventato una serie di false verità, e identità, ricevendo così dei proficui assegni di denaro da parte delle istituzioni; donazioni che ora vorrebbe far terminare. A tal fine inizia, nuovamente, a ideare reti d’imbrogli e raggiri in cui vengono, con lui, intrappolati, volontariamente o involontariamente, diverse figure, come Giulia (Chiara Bonome), moglie di Gargiulo, un’assistente sociale (Valentina Martino), il responsabile della previdenza sociale (Paolo Roca Rey) e una mediatrice di coppia (Chiara David); svariate reti tali da creare contemporaneamente più piani narrativi, che in un, apparentemente interminabile, climax ascendente si sovrappongono, intrecciandosi ritmicamente in uno statico equilibrio, senza raggiungere, infine, un totale scioglimento.

Portare in scena il testo di N.L. White con la regia di Luca Ferrini ha significato, per il Teatro Vittoria, ‘portarsi in scena’ ed esplorare tutte le potenzialità fisiche e materiali che la struttura offre: i personaggi parlano, appaiono e scompaiono da ogni spazio usufruibile all’interno del teatro, il quale finisce col diventare, in toto, spazio scenico. Ferrini, dunque, si avvale di ogni entrata laterale, di ogni porta d’emergenza, della galleria e della sala regia per dare il via alle diverse scene, le quali sembrano presentarsi come un quadretto dal soggetto decentralizzato, così da coinvolgere anche le diverse possibilità sensoriali del pubblico, e rendendo il palco, sempre, unico, vero e proprio principale protagonista della storia.

Un’organizzazione architettonica labirinticamente coerente alla stregua del suo storytelling: le microstorie difatti ben si incastrano alle macrostorie, rendendo essenziali le diverse sfumature e le diverse identità che gli otto personaggi portano con sé; un irriverente pastiche espositivo mai peccatore di caos, grazie al carattere formulare delle battute con il quale i personaggi riepilogano più volte gli incastri del racconto.

Il teatro sembra denunciare sé stesso, confessando i suoi intrighi e le sue false dichiarazioni; invero, leggiamo una comica apologia sociale della colpa in una situazione di emergenza, in difesa dello spirito di sopravvivenza, per il quale il teatro non può che fare quello che gli riesce meglio: favoleggiare ‘criticamente’ dando vita a infinite apparenze.

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