I giganti della montagna, per tornare a sognare

30 Gennaio 2023

«La vita è piena di infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili, perché sono vere» (Luigi Pirandello)

«Ho paura, ho paura»: queste le battute a chiusura dell’ultima opera pirandelliana, incompiuta per la successiva morte del drammaturgo siciliano; parole a cui il regista Claudio Boccaccini ha voluto dar seguito con la sua messinscena, debuttata la teatro Nino Manfredi il 26 Gennaio, che vede protagonisti Felice della Corte e Silvia Brogi,  scegliendo di rappresentare l’episodio che, in una lettera al figlio Stefano, l’autore aveva presentato come futuro atto conclusivo.

I giganti della montagna è molto di più di un testamento letterario, un compendio delle sue riflessioni sulla vita e sul teatro, è Pirandello stesso, con quelle insicurezze e quelle ombre che La Stranezza di Roberto Andò da poco ha mostrato sul grande schermo. Sua più grande paura era la possibile derisione del pubblico, il dubbio di una probabile incomprensione, e ne I giganti della montagna è proprio un testo non apprezzato, La favola del figlio perduto (realmente opera pirandelliana) ad essere il cardine delle vicende rappresentate, seguenti alla morte del poeta-autore, suicida per il dolore del fallimento.

Si apre il sipario e il buio si colora con gli eccentrici travestimenti degli ‘Scalognati’, un gruppo, apparentemente di donne e uomini, dall’accento partenopeo, al seguito del loro demiurgo Cotrone (Felice della Corte), con giacca, occhiali e cappello simili allo stile del latitante Matteo Messina Denaro (una social visione?), che accolgono nella loro villa la ‘Compagnia della Contessa’, un gruppo di attori ‘falliti’, girovaghi come Sei personaggi in cerca di autore, dalle candide vesti bianche, questa volta, in cerca, non di un regista, ma di un pubblico per cui ri-allestire l’opera protagonista, causa del loro precedente insuccesso, perché troppo complicata e incomprensibile all’uomo.

Cotrone li invita ad abbandonare le pretese di un secondo debutto e a rifugiarsi nel loro mondo, dove lui magicamente rende reale sogni e illusioni; si materializzano fantasmi e ombre, il palco diventa soppalco in cui si intravede la realtà oltre il velo di Maya; ma l’uomo non può che essere uomo, testardo e ambizioso, così la Contessa si ostina a voler un pubblico materiale, rifiutando la possibilità di una perpetua, ma illusoria, felicità. Infine è per ‘giganti della montagna’, abitanti dei monti a loro adiacenti, che allestisce l’opera maledetta.

Provocatoria, enigmatica ed ermetica, la messinscena in pieno ricrea lo spirito pirandelliano, facile a comprendersi per chi di Pirandello ha già fatto conoscenza; non pochi i modernismi che Boccaccini è solito inserire nei suoi rifacimenti, ma lo scrittore siciliano non ha bisogno di un adattamento per essere ideologicamente contemporaneo, i suoi sono testi profetici, profondamente attuali, sebbene centenari: l’uomo è maschera, il teatro è realtà, e realtà è teatro; realtà è anche sogno, e solo chi è ancora capace di sognare apprezza il teatro e ne coglie bellezza e verità.

L’allestimento curato nei minimi dettagli, dagli abiti di scena, dalla musica, agli affetti speciali, poco risente di qualche non sporadica nota stonata, dalla forzata cadenza caricaturale recitativa, soccorsa dall’innegabile talento di Della Corte, che di magico non ha solo il personaggio, ma la capacità di render chiaro che il suo non è solo lavoro, ma pura passione.

Come Cotrone ha rievocato gli spiriti, Claudio Boccaccini ha rievocato Pirandello, ancora una volta, usando i classici per parlarci e rivelarci un presente poeticamente disilluso; la paura del non aver paura dell’oscuro, del magico e del suggestivo, il regista dona degna realizzazione al pirandelliano monito conclusivo.

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