“L’ispettore generale” di Muscato. Uno specchio narcisistico senza tempo

5 Novembre 2023

Un piccolo distretto in provincia di Pietroburgo, un microcosmo di corruzione, sessismo, classismo, giochi di potere e mala gestione; governato da un immorale podestà e abitato da stravaganti individui, approfittatori e speculatori, interconnessi da una fitta rete di favori e tornaconti economici, il cui equilibrio è minacciato dall’ imminente arrivo di un ispettore generale che rischia di scoprire e spezzare ogni infimo, latente, legame feudale antistorico; una totale, cieca, paura, per la quale cedono in scambi d’identità e fraintendimenti.

Così il drammaturgo Nikolaj Gogol’, in questa riproduzione in miniatura della Russia zarista ottocentesca, descritta nella commedia L’ispettore Generale, nel 1836, satirizza sulla situazione socio-politica del suo paese; una realtà lontana da noi, per spazio e tempo, il cui eco culturale, tuttavia, risuona familiare, attuale, sincrono; una lettura, una visione, che ancora oggi è momento, opportunità di riflessione e di autocritica civile; a dimostrarlo è la sua ultima rappresentazione diretta da Leo Muscato, andata in scena al Teatro Quirino, che vede protagonista, nei panni del podestà, uno sferzante Rocco Papaleo, la cui comica, posata, derisoria mimesis facciale fa sì che i panni di un arricchito governatore provinciale con manie di grandezza sembrino essere stati cuciti proprio su e per lui.

Una riproduzione scenografica fedele, ricca, con la steppa russa, le sue piccole case, a far da sfondo; neve, cappelli e pellicce; necessaria e funzionale la scelta del podio girevole al centro del palco per cambiare velocemente e ritmicamente gli ambienti, permettendo allo spettatore di entrare in ogni angolo, in ogni casa di quella piccola corrotta cittadina, ne annusa i segreti, scava nella forma perbenista, è testimone di ogni sotterfugio, piano e opportunistico scopo.

Gli attori accompagnano lo sguardo del pubblico con un’ampia, incessante, gestualità co-verbale, a tratti dialogicamente espressiva ma fisicamente statica; saltuaria fissità scenica colmata da battute cantate e semi-coreografie, tali da unire l’enfasi del genere grottesco all’incisività del teatro di parola.

La regia di Muscato è ragionata, iconizzando il messaggio denunciatorio gogoliano, pone l’accento sull’uomo e il suo egocentrismo senza tempo, non c’è legame famigliare o sentimentale capace di demonizzarlo; amore e affetto sono leve per asservire o assoggettarsi in base a ciò che serve; tuttavia la satira è sottile, è una risata genuina quella che predomina nella platea, nonostante la denuncia si mantenga viva tramite incisi lessicali e colloquiali attuali, come l’immancabile «sono una donna, sono una madre…»,  ormai un must formulare presente in ogni odierna commedia satirica.

Lo spettacolo dunque si presenta accessibile a ogni tipo di spettatore, sia per chi a teatro scava, scruta e confronta sia per chi ha bisogno d’intrattenersi senza voler rinunciare a un tipo di comicità non banale.

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