“Letizia va alla guerra – la suora, la sposa e la puttana” è in scena fino a domenica 14 gennaio al Teatro Basilica di Roma, dopo aver debuttato il martedì della medesima settimana.
Con la drammaturgia di Agnese Fallongo, l’attività d’attrice della stessa autrice corroborata dalla recitazione e dall’accompagnamento musicale dal vivo dell’immancabile Tiziano Caputo – l’altra metà del cielo dell’ormai collaudatissimo duo artistico “Agnese & Tiziano” – e l’ideazione e la regia di Adriano Evangelisti, il suddetto spettacolo – primo dei tre che compongono il repertorio dell’affiatata coppia artistica – ha la durata di 1h30’ e si caratterizza per pulizia tecnica oltre che per una gradevolissima struttura narrativa che nell’arco del suo sviluppo si dimostrerà essere perfettamente autoconclusiva.
Tre donne, tre diverse provenienze geografiche, tre dialetti – o forse sarebbe meglio scrivere tre lingue – e tre storie, incastonate nel quadro generale dello spettacolo, che raccontano le difficoltà di una società e di un genere in particolare – quello femminile – che si trova ad affrontare nell’arco di una trentina d’anni due conflitti mondiali con tutti gli annessi e i connessi che le guerre portano con sé.
Agnese Fallongo, brava attrice, dà forma ai 3 personaggi del titolo con grande maestria, mettendo in mostra il suo ricco talento che è incanalato in un solco di abitudine e precisione che appare evidentissimo agli occhi di spettatori consci della cifra stilistica della formazione in scena.
Formazione in cui di notevole fattura e quantità, ovviamente, risulta il contributo della “seconda metà della mela” e ossia Tiziano Caputo, musicista, cantante e attore.
I due Artisti padroneggiano ritmi, atteggiamenti fisici ed emotivi e dialetti molto differenti, sfigurando quasi mai e, anzi, facendo un’ottima figura nel complesso dell’andamento dello spettacolo, sebbene in alcuni momenti si avverta una costruzione troppo tecnica e quasi “teorica” in luogo di una spontaneità che, forse, alla 110° replica si fatica a riproporre.
Ma quello appena citato potrebbe essere definito, più che una mancanza o un difetto, come “il classico pelo nell’uovo” di un lavoro che, oggettivamente, si fonda su basi solide e di indubbia qualità.
Il dramma o, che dir si voglia, il racconto delle tre “Letizie” procede spedito, in maniera cristallina – forse troppo in alcuni passaggi che più che vissuti sembrano affidati alla forza descrittiva del verbo – , disegnando trincee, case di piacere e conventi con un realismo costruito solo dall’immaginazione di coloro che calpestano il palcoscenico e che in una sorta di “principio dei vasi comunicanti” si fanno, per il proprio pubblico, architetti, costruttori ed arredatori di mondi così lontani e così tutti interessanti.
In definitiva, una proposta teatrale valida – come ampiamente previsto – e largamente degna di nota, poiché poggiata su fondamenta più che solide di preparazione e passione.
Se proprio ce ne fosse l’occasione, si consiglierebbe una maggiore propensione al voler continuare a sorprendersi maggiormente di queste vite create e ormai, evidentemente, autonome nelle loro rispettivamente belle strutture.