“Pasolini a Villa Ada” di Ivan Festa. Parole di vita, poesia e coscienza

20 Marzo 2024

Conosciamo Pasolini, uomo, poeta e regista, dalle sue opere, dai libri ai film, dalle interviste ai diari personali; tuttavia sembra non esserci mai un’uniforme definitiva delineazione della sua identità, e a dimostrarlo sono soprattutto i racconti di chi lo ha avuto come amico, mentore o maestro.

Ninetto Davoli, Elsa Morante, Alberto Moravia, Dacia Maraini e Laura Betti sono solo alcuni tra i nomi più noti che negli anni hanno vantato aneddoti e ricordi, ma non sono gli unici: riservato, dietro il sipario semiaperto della rendicontazione pasoliniana spicca lo scrittore Giorgio Manacorda, conosciuto come “colui che fece incontrare Cristo a Pasolini” avendogli presentato Enrique Irazoqui, protagonista del film Il Vangelo secondo Matteo. Manacorda mandò i suoi primi versi al poeta friuliano e con lui instaurò fin da subito un delicato rapporto d’amicizia che iconicamente ricorda la dialettica socratica maestro/allievo.

Rapporto di alti e bassi, descritto nel suo libro Pasolini a Villa Ada; in cui riporta lo scambio telefonico avuto con un altro scrittore, Renzo Paris, il quale, in occasione di una pubblicazione sulla prima pagina della «Repubblica» di una lettera inedita di Pier Paolo, lo incita a ricordare, a narrare, quella stretta poetica e umana che li ha uniti.

Un testo trasformato in materia teatrale dalla voce e il corpo di Ivan Festa, che, dopo il successo ricevuto, ha da poco riportato Pasolini a Villa Ada sul palco all’Ar.ma teatro di Roma con un breve, denso, monologo ricco di palpabile sentimento e passione da parte dell’attore, attraverso le cui parole non solo si ripercorrono le tappe di un legame in cui si intrecciano etica, politica e psicanalisi, ma si coglie l’occasione per una riflessione più ampia sulla poesia, sul suo ruolo, enucleando Pasolini dal suo essere Pierpaolo ed elevandolo a simbolo atemporale della parola “poeta”. 

Manacorda (Ivan Festa) ci accoglie di spalle, seduto su una panchina, circondato da foglie autunnali. È a Villa Ada, in pausa dalla corsa, quando riceve una chiamata da Renzo Paris, che gli comunica l’uscita della lettera inedita. Lo scrittore non vuole ricordare chi è stato per lui Pasolini, non vuole ricavare fama da quella sua vecchia amicizia, ma l’onestà morale non è l’unico motivo di quel suo silenzio: intorno al ricordo di Pier Paolo si nasconde un trauma, tenuto a bada fino al quel momento e che ora per colpa di quella telefonata è costretto a riemergere.

Più che trauma, potremmo definirlo un colpevolistico personale rimpianto di ciò che Manacorda avrebbe potuto diventare, un poeta puro, come Pasolini aveva predetto, un poeta che, infine, è stato assorbito dalla politica, perdendo, a detta del maestro, quella virtù che Pier Paolo aveva colto nella giovinezza delle sue parole.

Come ogni cosa in terra segue un andamento circolare, anche la panchina del palco scenograficamente si sposta a destra, in avanti, a sinistra, per poi tornare di spalle; a ogni movimento segue una porzione di racconti concettualmente uniti da un filo conduttore; un girotondo narrativo che vede la sua fine nell’auto-accettazione, nell‘auto-perdono di Manacorda verso sé stesso, un’indulgenza inevitabilmente raggiunta nel riconoscere Pasolini ‘poeta’ come nessuno potrebbe essere mai.

Ivan Festa con precisione delinea un contesto storico-letterario; con dolcezza e dedizione ci si addentra, personificandone la parte umana, un brevissimo viaggio di formazione verso la consapevolezza di sé, trasformando il palco in quella “stanza tutta per sé” dove conoscersi davvero, supportato accuratamente da un gioco di luce/ombra che sembra metaforicamente seguire il salto realtà-intimità di un rapporto sotto al cui strato di superficiale amicizia si sono nascoste disillusioni e insoddisfazioni inespresse.

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