Un Prato Rosa

19 Marzo 2023

La nuova mostra di Francesco D’Aliesio Tre Operazioni allo spazio di ricerca artistica Studio Drang, si palesa come un’esposizione al limite del minimalismo, dove il rosa, il grigio e il bianco, riempiono la sala espositiva.

Conoscendo le scorse esposizioni di D’Aliesio, vediamo che in queste c’è sempre un’attenzione ad un’analisi dello spazio che viene decifrato in più piani concettuali, con la volontà di portare lo spettatore ad immaginare nuove esperienze e a concepire in una maniera diversa le architetture che viviamo. Il titolo della mostra è scelto proprio perché l’artista lavora su tre livelli di analisi dello spazio, che destruttura, scompone e rilegge ponendo un nuovo modo di abitare.

Sulle pareti l’artista affigge le sue poesie metriche, di sapore neo-avanguardista, che accompagnano lo spettatore sui tre assi della sala. Partendo dalla misurazione della distanza tra le pareti e tra il soffitto e il pavimento, inizia l’elaborazione concettuale di D’Aliesio: converte le cifre in lettere per poi misurare lo spazio da esse occupate, e continua il processo di misurazione e traduzione fino a che non si arriva a conclusione, in cui la misura coincide con la parola del numero misurato.

A terra troviamo lastre di polilam rosa (una citazione al suo lavoro Liminale e/o alla pellicola Kodak Aerochrome?) che ricoprono metà sala come a ricreare un’erba sintetica. I pannelli prelevati dall’altra parte del pavimento li troviamo nella colonna che l’artista innalza in fondo alla sala. La posizione deriva in base alla relazione fra numero di elementi, il loro spessore e l’altezza dello spazio. Una registrazione – traduzione del pavimento.

Lo spettatore, come in Liminale, è spinto ad interagire con il lavoro stesso: una scala posta frontalmente alla colonna, cerca di far cambiare al pubblico il punto di vista, e di proporre un’esperienza che è l’equivalente fisico dell’operazione concettuale e materiale che avviene con le lastre rosa, scardinando le normali impressioni e visioni. E’ una mostra che ci pone di fronte ad un lavoro complesso. Parte del pavimento viene reso una colonna portante dell’architettura spostando concettualmente uno spazio piano calpestabile ad una dimensione verticale. Dal piano della sala scaturiscono nuovi spazi. Attraverso il processo poetico l’artista trova un luogo interno e nascosto insito nelle dimensioni della sala espositiva.

Il risultato che otteniamo è un altro luogo, una nuova concezione ambientale e una rivoluzione nel modo in cui lo usufruiamo e pensiamo.

MMC: Rispetto a Liminale e al lavoro della G.A.M. sembra un passo avanti nella tua ricerca. Cosa ne pensi?

FD: Si, in un certo senso quest’ultimo lavoro è l’unione di questi due. Effettivamente alla G.A.M. si trattava di un’unica operazione di traduzione spaziale, in cui la documentazione fotografica esposta con l’opera aiutava il pubblico nella lettura del processo (che in quel caso era meno autoevidente rispetto a Tre Operazioni) e quindi a capire qual’era stata la genesi produttiva del lavoro. Mi interessava renderlo il più leggibile possibile, riducendone l’aspetto misterioso e interpretativo. Liminale invece era molto simile a Tre Operazioni, perché in entrambe ho cercato di realizzare la stessa coincidenza/avvicinamento fra l’esperienza fisica del pubblico e le idee alla base dei lavori. Il rischio qui era che l’obbligatorietà di salire sul muro facesse emergere più l’aspetto ludico ed esperienziale, quindi il cambio di punto di vista e l’uso fuori dal comune di quello spazio, piuttosto che quello concettuale. In realtà però già lì c’era la preoccupazione di voler far toccare e coincidere questi due aspetti. L’idea principale era quella di dare la possibilità di abitare la linea di confine/separazione. In concreto questo ha voluto dire costruire una barricata, una struttura per salire e reggersi e fare una gettata. In Liminale l’happening, ovvero la parte interattiva del pubblico, era il momento di esperienza degli aspetti concettuali. Qui invece le tre operazioni sono presentate in maniera più analitica, sono distinte l’una dall’altra ma sono strettamente collegate; si nutrono a vicenda e il dialogo che instaurano rappresenta l’unione di questi due lavori: c’è la dimensione interattiva e ludica dell’evento di Liminale e quella concettuale analitica di registrazione/traduzione della G.A.M. La novità che troviamo è l’introduzione del testo come oggetto/medium di traduzione, il quale ci sposta su un altro piano, anche se nello scrivere si gioca sempre con la misurazione.

MMC: Questo tuo interesse per l’analisi degli spazi da cosa nasce?

FD: L’analisi è un modo per confrontarmi con le specificità di un certo ambiente, con dei dati di partenza che presumiamo oggettivi. Mi interessa questa relazione fra la dimensione oggettiva e la possibilità di superamento. Descriverei il processo come un movimento che va dal dato oggettivo (limite) alla sua trascendenza e che ritorna al reale. Questo ritorno ha il carattere di un nuovo “oggetto” di percezione, ovvero nuovamente reale, che contemporaneamente è testimone di un’idea e una visione. Per entrare un po’ nel merito del lavoro, gli aspetti che mi interessano sono da un lato la possibilità per il pubblico di riconoscere, leggere e capire il processo e quindi seguire la trasformazione che avviene dal “reale” al “reale”; dall’altro mi interessa che l’opera possa essere allo stesso tempo un dispositivo di esperienza. L’esperienza di cui ci si ritrova partecipi è parte integrante del corpo dell’opera e permette una relazione più intima, diretta e personale con gli aspetti concettuali e materiali del lavoro. C’è un insito desiderio di far toccare pensiero e contemplazione con l’esperienza fisica di chi osserva ed è in un certo senso un modo per attraversare un paesaggio, e quindi produrlo con la propria presenza corporea. Direi che siamo sempre produttori di ciò che osserviamo, e forse soprattutto che possiamo esserlo.

MMC: Come immagini i prossimi spazi e lavori?

FD: Me li immagino e non me li immagino. Mi sono chiesto cosa succederebbe con spazi più grandi ed estesi, perché ovviamente la scelta dei materiali da utilizzare e il tipo di traduzione che immagino dipendono molto dalle caratteristiche specifiche dello spazio in cui intervengo. C’è un passaggio però che non mi è ancora molto chiaro, e forse non lo sarà completamente finché non avrò modo di lavorarci concretamente: fin’ora ho lavorato all’interno di un unico ambiente, registravo e traducevo uno spazio dentro se stesso; l’idea invece di registrare un ambiente e portarlo in un altro, quindi di lavorare tra luoghi diversi, in cui si incontrano la traduzione di uno e l’essere dell’altro mi interessa molto, sento che fa eco con molte questioni e che contiene il giusto potenziale di sviluppo per questo genere di lavori. In generale mi sento fiducioso del processo, e questo vale al di là del grado di messa a fuoco dell’immaginazione sul futuro.

La mostra è aperta fino al 24 marzo su appuntamento e vi consiglio vivamente di andare a vederla, perché è una di quelle chicche che capitano non troppo spesso.

STUDIO DRANG – Ilaria Goglia e Alessandra Pinna
https://www.instagram.com/studiodrang/

Foto di Vanessa Caredda

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