Quest’anno si è tenuta a Palermo la tredicesima edizione del Queer FilmFest, primo festival internazionale di cinema LGBT, diretto da Andrea Inzerillo. La manifestazione è tornata con un ricca programmazione nell’ultima settimana di maggio. Ne parliamo adesso, nel corso del mese dedicato al Pride, nel pieno di battaglie significative sul piano dei diritti civili. Comunque sia, e come da tradizione, larga parte del Festival è stato dedicata anche ad altre arti e narrazioni trasversali.
RAUMBILDER // FRONTIERA. Mostra collettiva presso la Haus der Kunst dei Cantieri Culturali alla Zisa, è un evento tra le antemprime del Queer. Il progetto espositivo è stato promosso dalle artiste dalle artiste Tine Bay Lührssen, Nina Brauhauser e Blanca Matías in collaborazione con il Verein Düsseldorf Palermo. Dieci artiste contemporanee, di tre diverse nazionalità (Italia, Germania, Spagna), e diverse generazioni, sono state coinvolte per una «riflessione collettiva sul concetto di “limite” da una prospettiva multidisciplinare». La voluta assenza di paratesti e cartellini ha fatto sì che il percorso assumesse la forma di un continuo, fluido sconfinare delle opere l’una nell’altra. Non soltanto un’esposizione, dunque, ma un momento dedicato a una progettualità collettiva: la sala è stata trattata come un dispositivo, un sistema di elementi ibridati ma individualmente riconoscibili. Ne abbiamo parlato con le curatrici, per le quali l’intento non è stato quello di mostrare un’idea di diversità, quanto piuttosto porre in evidenza relationships e overlaps tra le parti coinvolte: «Per noi era importante disporre le opere all’interno di un processo comune e democratico, e lasciare che dalla collaborazione emergessero nuove opere. Nonostante gli approcci, le condizioni, le strategie, le culture e le lingue siano diverse, il risultato è stato senz’altro soddisfacente».
Passages, di Ira Sachs (Francia, 2023), proiettato durante la giornata di apertura, è stato presentato come una “miscela” di dramma fassbinderiano e Nouvelle Vague. Ambientato a Parigi, la pellicola ripercorre la storia di Tomas (Franz Rogowski), e il triangolo di relazioni sentimentali e sessuali che questi dirige nella propria e nella vita degli altri: quella del marito Martin (Ben Whishaw) e di Agathe (Adèle Exarchopoulos). La vicenda scorre concreta attraverso gli incontri tra i corpi dei tre protagonisti, dai quali Tomas si lascia vivere senza troppa convinzione: indagati con sguardo realista, a tratti asettico, essi si offrono come un fatto anzitutto meccanico, dal quale Tomas riesce a bandire l’incursione di altro. Il sentimento si riduce a guscio vuoto, residuo di un’esigenza che è anzitutto proiezione narcisistica di sé nell’altro, giustificazione posticcia di un egoismo latente. I dialoghi, nei quali è stata infuso un alone da Nouvelle Vague, diventano il mezzo di uno scambio interrotto: la parola media, come una moneta dall’esergo usurato, tra sentimenti che il protagonista consuma senza porre filtri tra i propri impulsi e le vite degli altri. Rimane solo, infine.
Regra 34, di Júlia Murat (Brasile, Francia 2021) è film vincitore del Pardo d’oro in occasione dell’ultima edizione del Locarno Film Fest. Il titolo si riferisce alla regola numero 34 di Internet, per la quale se «qualcosa esiste, ne esisterà la versione pornografica». Simone, la protagonista, conduce una doppia esistenza: di giorno studia giurisprudenza, di notte lavora come cam sex worker. Tra questi due poli, la sua vita insiste sul limite di tutte le possibili intersezioni, rispetto alle quali corpo e sesso diventano mezzo di comprensione di sé e delle dinamiche del potere a cui la persona, come essere individuo e sociale, può essere sottoposto. Simone è una donna: se una parte della sua vita è dedicata alla tutela di corpi femminili oggetto di abuso, un’altra parte viene trascorsa in pratiche BDSM in cui accetta, liberamente, di sottoporsi alla violenza. Simone è anche una nativa: di giorno, combatte il sistema che vittimizza i corpi colonizzati, di notte, si immerge senza riserve nella “versione pornografica” di questa realtà, accettando di subirne il carico di male e dolore. Murat, avvalendosi di una lettura intersezionale, indaga oltre ogni pregiudizio il problema della libertà e della responsabilità dell’individuo e, allo stesso modo, costringe al rifiuto di ogni preconcetto. Propone un viaggio perturbante nel subconscio collettivo, nel quale ogni opposizione dicotomica crolla senza possibilità di recupero: la rassicurante distinzione di vittima e carnefice ne esce sgretolata, per restituire un quadro decisamente complesso delle relazioni umane e del contesto sociale in cui i rapporti nascono e vivono.