Intervista a Silvio Maselli e Daniele Basilio

3 Marzo 2024
Fonte rbcasting

Tra le tante case di produzione cinematografica e televisiva italiane ce n’è una che negli ultimi anni si è distinta per originalità e creatività: Fidelio, fondata da Silvio Maselli e Daniele Basilio nel 2020. Grazie all’aiuto di diversi investitori, i due manager dell’audiovisivo, con esperienza ventennale nel settore, hanno potuto seguire il loro sogno e creare una casa di produzione che ha l’obiettivo di portare in vita storie con tematiche poco trattate e considerate più rischiose da affrontare. Un catalogo ampio nei temi e nei generi, che comprende: Vetro di Domenico Croce, Essere hikikomori. La mia vita in una stanza di Michele Bertini Malgarini e Ugo Piva, My Soul Summer di Fabio Mollo, Aemilia 220 di Claudio Canepari e Giuseppe Ghinami e infine Antonia, una serie diretta da Chiara Malta e scritta e interpretata da Chiara Martegiani e coprodotta da Groenlandia, in collaborazione con Prime Video e Rai Fiction, che uscirà sulla piattaforma streaming Prime video lunedì 4 marzo.

Qualche settimana fa abbiamo avuto l’occasione di intervistare i due produttori che ci hanno raccontato della nascita di Fidelio, della sua identità ma anche di Antonia e dei loro progetti futuri.

Com’è nata Fidelio Production? Cosa vi ha spinto a creare la vostra casa di produzione?

Silvio Maselli: «Ci ha spinto proprio l’esperienza che abbiamo maturato nei tanti anni precedenti lavorando per altre società di produzione, venendo, sia io che Daniele, che è con me e condivide l’iniziativa imprenditoriale, da questo background ci è parso quasi naturale, in un momento in cui ci sembrava che l’ecosistema della produzione audiovisiva nazionale andasse in una direzione di troppa omogeneizzazione dei contenuti, provare a portare la nostra voce, a contribuire con una voce in più rispetto a un’industria che si stava andando a strutturare con grandi acquisizioni da parte di multinazionali e con il rafforzamento della struttura finanziaria di società storiche e proprio per questo ritenevamo potesse lasciare spazio a iniziative più indipendenti e più capaci di intercettare storie nuove. Non potevamo immaginare che di lì a pochissimi mesi sarebbe arrivato il Covid che ha cambiato la prospettiva dei consumatori di contenuti audiovisivi, chiudendoli in casa per diversi mesi e poi anni, e facendo esplodere l’opzione digitale; le piattaforme vod hanno modificato radicalmente il modo in cui si producono e si percepiscono i contenuti audiovisivi. Oggi viviamo una fase nuova, dopo la grande ubriacatura si torna al cinema, molto timidamente all’inizio e poi con grandi successi, grandi episodi che però l’esperienza mi porta a ritenere trattarsi come sempre di campioni che non raccontano una tendenza generale ma che rimangono casi di straordinario trionfo difficilmente replicabili. Mi riferisco chiaramente alla Cortellesi, che spero non ci stia aprendo a una stagione in cui tutte le produzioni e tutti gli autori punteranno a imitare quell’esperienza, unica nel suo genere, di narrazione femminile».

Daniele Basilio: «Sia io che Silvio abbiamo iniziato a occuparci di cinema che eravamo giovanissimi. Io ho fatto il centro sperimentale e subito dopo ho cominciato a lavorare come freelance, questo più o meno fino al 2007/2008, quando ci siamo conosciuti trovandoci a lavorare insieme nell’agenzia regionale Apulia Film Commision, lui come direttore ed io responsabile dell’ufficio produzioni. Da lì abbiamo lavorato diversi anni insieme impostando un modello diverso di film commission che non erogasse soltanto servizi e finanziamenti ma che si occupasse anche di sviluppo del territorio. Dopo qualche tempo, Silvio andò via per un’esperienza all’assessorato della cultura del comune di Bari ma la sensazione che il mercato stesse cambiando rapidamente, con l’arrivo e l’avvento delle piattaforme, e che noi eravamo diventati grandicelli per continuare a fare sempre lo stesso lavoro, ma anche per continuare ad avere un rapporto esterno a questo mercato, fece crescere in noi il desiderio di trasferire nei film e nelle serie il nostro punto di vista. Quando lavori in una società al servizio degli altri, come la film commission, o come freelance non riesci a trasferire un tuo sguardo sulle opere ma aiuti, contribuisci, puoi fare tante altre attività altrettanto importanti e strategiche però più cresci più senti l’esigenza di dire “ok ma io avrei un punto di vista su cosa dovremo raccontare oggi o su quale romanzo vorrei adattare per il cinema o per la televisione, su quali sono le storie e i trend”. Diciamo che la spinta di poter contribuire di più agli aspetti di contenuto e culturali ci ha indotti a prenderci il rischio e dire “okay, rinunciamo a tutto ciò che è la comfort zone della nostra vita e buttiamo il cuore oltre l’ostacolo” e da lì è nata la possibilità di creare da zero una strategia e un’azienda. La differenza rispetto alle altre start-up dell’audiovisivo che si creano da giovani sta nella nostra consapevolezza che per affrontare il mercato, e quindi veramente riuscire a raccontare delle storie dal nostro punto di vista, avevamo bisogno di un budget iniziale di sviluppo, perché fondamentalmente l’attività di rischio maggiore per un’impresa audiovisiva è la fase di sviluppo, in quanto è il momento in cui non sai se ciò che stai sviluppando si concretizzerà mai, a maggior ragione in una start-up. Quindi abbiamo deciso di fare un’azienda che fosse un po’ più strutturata dal punto di vista del capitale sociale e abbiamo trovato dei soci investitori che hanno creduto in noi e ci hanno permesso di avere un budget iniziale grazie al quale potessimo sviluppare delle storie per vedere se poi venivano gradite dal mercato. Ahimè, abbiamo avuto un incidente di percorso perché il Covid ci ha tenuti fermi il primo anno di attività della società, però in realtà – e per assurdo – proprio il fatto di stare fermi dal punto di vista produttivo ed esecutivo, visto che in quel periodo non si poteva girare, ci ha permesso di concentrarci sulla parte creativa. La maggior parte delle cose che si sono realizzate o che stiamo finendo, infatti nascono come idee in un periodo in cui il mondo era paralizzato, perché poi la genesi delle storie è lunga, ci vogliono anni da quando hai un’idea a quando poi la realizzi e quindi ci siamo concentrati massimamente nell’attività di sviluppo e da lì nascono i progetti che abbiamo realizzato agli inizi».

Come vengono scelti i vostri progetti? Dietro c’è un filo rosso che seguite? La vostra casa di produzione ha un’identità specifica?

Silvio: «In realtà noi non siamo ossessionati dalla linea editoriale ma siamo alla ricerca dell’emozione, quindi quando leggiamo un soggetto, un copione, si attiva qualcosa che alla prima lettura mia e di Daniele, ci produce un’emozione forte. È stato così per tutti i nostri progetti e in particolare è stato così per “Antonia”, che abbiamo letto nella prima formulazione quando erano poche paginette di un soggetto, così come ci ha emozionato la storia di “Vetro”, “My soul summer” o gli altri progetti, anche documentari, che abbiamo realizzato. Ci deve essere qualcosa che lascia un segno, innanzitutto nella nostra struttura emotiva. Poi se devo proprio trovare un fil rouge lo ritrovo nel senso di responsabilità: tutte le nostre storie parlano di protagonisti che devono fare i conti con la responsabilità, che aspirano ad uscire da una gabbia che li imprigiona e a raggiungere un momento in cui decidere porta a diventare padroni di se stessi. Questo è un po’ il nostro filo rosso. Quello che ci guida è l’idea di non accontentarci delle cose banali e di provare a dare un contributo. Anche perché le case di produzione sono centinaia e gli autori sono migliaia quindi il compito dell’industria culturale è proprio quello di fare da filtro e provare a selezionare storie su cui lavorare, da elaborare e portare a un livello di conoscibilità di massa, che possa essere capace di cambiare le cose. Altrimenti i prodotti sono tutti simili tra loro e, perciò, piatti, che non aggiungono nulla alla storia della creazione artistica. Ovviamente la nostra è un’ambizione, un’aspirazione, non sempre ci riusciamo e il nostro è il lavoro più difficile del mondo e tutti i produttori hanno la mia massima stima perché fanno un lavoro difficilissimo, come tutti gli imprenditori culturali e creativi» .

Silvio Maselli, Fidelio

Daniele: «Io penso di sì, non so quanto questa identità di base si sia strutturata in una maniera cosciente o incosciente. Già il nome della nostra società “Fidelio” dice qualcosa su come siamo orientati; entrambi siamo due persone molto legate non solo al mondo dell’audiovisivo ma anche al mondo della musica e infatti il nostro secondo film “My soul summer” parla di musica, mentre Fidelio è anche il titolo di un’opera di Beethoven e la prossima serie a cui stiamo lavorando parla della musica rap e coinvolge una star di quel mondo. Sicuramente questo è un fil rouge: il rapporto tra la musica e le immagini. Poi c’è anche il fatto che spesso le nostre storie vedono protagoniste femminili: “Vetro”, “My soul Summer”, “Antonia” – che uscirà su Amazon il 4 marzo – e questa sicuramente è una spinta per noi: scrutare un mondo, che è quello appunto delle storie al femminile scritte da donne. “Antonia” ad esempio è ideata, scritta, diretta e interpretata da donne. Le storie al femminile possono essere prodotte da uomini e viceversa, se pensiamo all’ultimo film di Lanthimos “Poor Things”, è una storia tutta al femminile eppure, il regista è un uomo. Comunque questa sicuramente è una cosa che ci spinge molto nella ricerca: andare a cercare e approfondire cose che magari ci sono più distanti. Poi c’è un’altra linea che può essere determinante, che è però anche un’esigenza, abbiamo necessità di fare contenuti un po’ più rischiosi, più avanzati. Per poter provare a emergere come società giovane e nuova cerchiamo di spingerci su dei territori che per gli altri vengono visti come pericolosi, insomma fare una serie dramedy su una giovane donna che soffre di endometriosi non è un territorio conosciuto. Quindi percorrere dei temi e delle storie un po’ più rischiose e inedite e soprattutto cercare di avere uno sguardo, un look, uno stile più internazionale, nel senso positivo della parola, non per scimmiottare quello che fanno gli altri. Poi sicuramente valorizzare i giovani talenti è fondamentale per noi, perché crediamo che una strategia importante sia quella di creare una sorta di team Fidelio, delle persone che non lavorano per noi o con noi per una singola cosa, a chiamata, ma che possa esserci uno scambio proficuo che prosegue negli anni in cui poi si costruisce un mondo creativo insieme. Spesso sui nostri progetti ci confrontiamo con gli autori e i registi con i quali abbiamo lavorato, con Domenico Croce, Fabio Mollo, Chiara Malta, perché le persone con cui abbiamo iniziato a lavorare sono persone con cui vorremmo continuare a lavorare».

Proprio riguardo ad Antonia vorrei soffermarmi sul fatto che la stampa nazionale ed estera l’ha definita un po’ la “Fleabag” italiana. Secondo lei per quale ragione?

Silvio: «Abbiamo l’ambizione che tra qualche mese, dopo l’uscita di “Antonia” in Inghilterra possano dire che la loro prossima futura serie sia l’”Antonia” inglese. Nel senso che si ha la tendenza a classificare, a incasellare tutto, ma in realtà noi ci occupiamo di una materia incandescente, che fai fatica a toccare con le mani. Ogni prodotto è diverso dall’altro, anche quelli seriali, che in realtà rispondono a logiche diverse dai film d’autore, sono più stereotipati, giocano più con dei topos narrativi che ritornano continuamente. “Antonia” è stata presentata come la “Fleabag” italiana semplicemente perché ha al centro della sua storia una donna molto libera, una donna testardamente convinta che il suo modo di stare al mondo è unico e irripetibile e quindi forse un po’ sovrapponibile alla “Fleabag” inglese. La realtà è che di serie in cui la protagonista è una donna che lavora per la propria emancipazione ce ne sono tantissime ma la caratteristica di “Antonia” è quella di una donna alla ricerca di se stessa, una donna che nel giorno del suo 33esimo compleanno perde il lavoro, perde l’amore e scopre di avere una patologia che può essere invalidante e che le pone un quesito tragico, atroce, che chiunque una volta nella vita ha vissuto o ha visto vivere a qualche amica: scegliere tra la propria libertà e il diventare madre; mettersi in menopausa anzitempo oppure cercare disperatamente di fare un bambino per bloccare questo dolore atroce che ti porta il ciclo ogni 28 giorni. È una storia tragi-comica se messa nelle mani giuste, come noi abbiamo provato a fare con il team di scrittura e di sceneggiatrici».

Daniele: «Dire che è la “Fleabag” italiana non posso che prenderlo come un enorme complimento, ovviamente poi quando uscirà la gente la vedrà e capirà se piace o non piace. “Fleabag” è una delle serie più belle dell’ultimo decennio ed è strapremiata e stravista. Se devo trovare dei punti di contatto, li vedo sulla genesi: anche “Fleabag” è una serie ideata dall’attrice protagonista e anche essa è una serie al femminile e ha quel tono di dramedy, dove ti parla di cose drammatiche e dure da accettare, ti parla di una donna che è arrivata a essere un adulto e deve prendere delle decisioni da adulto che forse non vuole prendere. Questi sono i punti in comune con Antonia, che si trova lì in quell’età dove non può più rimandare delle scelte, che cerca di affrontare con un tono un po’ dissacrante, un tono inedito. In Italia faccio fatica a trovare – non mi faccio un complimento né il contrario – un prodotto che abbia questo sguardo, questo tono che di solito è più inglese o comunque nordeuropeo. Questo penso che possa essere il punto di contatto della nostra storia, poi non saremo certo né i primi né gli ultimi a fare una serie ideata da un’attrice che poi fa la protagonista però è un fenomeno più teatrale, che si è visto poco nell’audiovisivo. Il bello di “Antonia” è questo, ti fa riflettere ma ti fa anche ridere ma con una leggerezza tutt’altro priva di spessore».

Ricollegandomi al fatto che Antonia sia una serie tragi-comica, una dramedy, secondo lei questo genere potrebbe funzionare in Italia o comunque già funziona?

Silvio: «Certamente sì, d’altra parte se noi tutti spettatori adulti e non solo adulti anche i giovanissimi, amiamo i contenuti anglosassoni per la loro irriverenza, perché non dovrebbe funzionare anche in Italia? È un po’ una condanna quella di ritenere che l’Italia è a suo agio con il melodramma e quindi dobbiamo fare tutti melodrammoni archetipici. Chiaramente “Antonia” si rivolge a un pubblico abbastanza particolare: un pubblico esigente, un pubblico di donne, innanzitutto, un pubblico che cerca nel contenuto audiovisivo non il sollazzo della propria serata ma una qualche forma di riflessione, una qualche forma di arricchimento. I contenuti audiovisivi sono infiniti, ce ne sono di ogni genere e per ogni palato, però la gran parte di questi sono ormai diventati intrattenimento no? Basta vedere le top 5, le top 10 delle piattaforme, questi prodotti hanno tutti la stessa dignità, dal punto di vista produttivo, però dal punto di vista artistico e creativo, della capacità di innovare, l’ambizione di chi produce è creare qualcosa di nuovo che ancora non c’era. Anche per questo rifuggo dalla classificazione della “Fleabag” italiana».

Daniele: «Beh, insomma il film più visto dell’anno, il più grande successo del cinema italiano degli ultimi anni ci dice di sì, ovvero il film della Cortellesi. Dal mio punto di vista siamo arrivati pure troppo tardi, nel senso che noi abbiamo inventato il dramedy con la commedia italiana degli anni ’60, poi ci siamo dimenticati che l’avevamo inventato e il cinema in lingua inglese ha cavalcato il fenomeno. Fondamentalmente stavano rifacendo qualcosa che noi avevamo fatto molto tempo prima, mentre noi per un periodo storico ci siamo orientati verso una commedia che era più comedy che commedia. Noi copiavamo la loro commedia mentre loro raccoglievano successi rifacendo la nostra, che era molto più profonda, di più spessore e molto più sociale. Penso che, invece, essere tornati a fare quel tipo di racconto significa che stiamo camminando su una strada che conosciamo bene, su cui abbiamo i piedi ben piantati perché lo sappiamo fare culturalmente. È quasi un istinto che tu ritrovi negli sceneggiatori di riuscire a fare questo tipo di lavoro».

C’è la volontà da parte vostra di espandervi anche all’estero e di fare arrivare il più possibile lontano i vostri progetti?

Silvio: «Con “Antonia” abbiamo provato già a farlo legandoci produttivamente agli amici di Groenlandia, che fanno parte del gruppo Banijay e che sono garanzia di una struttura internazionale, anche di vendite, che possa consentirci di far viaggiare la serie fuori dai confini nazionali, come siamo sicuri accadrà. L’ambizione di chi fa il nostro mestiere è sempre quella di parlare al mondo e di non limitarsi a parlare agli spettatori italiani ma di guardare al mondo più largo di chi ama il cinema e l’audiovisivo e vuole belle storie. Chiaramente è anche vero che noi siamo italiani, la nostra sensibilità culturale e artistica, i romanzi che leggiamo sono prevalentemente legati alla cultura italiana ed è molto difficile per un produttore italiano, per esempio, acquistare una proprietà intellettuale generata altrove, è raro che accada, può succedere non è da escludere però obiettivamente si tende a favorire la cosiddetta eccezione culturale, cioè il profilo culturale del proprio paese. D’altra parte, è giusto che sia così, non c’è nessun sovranismo in questo anzi c’è un universalismo, c’è un cercare di raccontare storie universali dal punto di vista italiano. D’altra parte, i più grandi successi che il cinema italiano ha conquistato, a partire proprio dall’ultimissimo della Cortellesi, che cosa sono se non storie tipicamente italiane, legata al modo in cui magari dall’altra parte dell’Oceano Atlantico ci guardano un po’- mi sia consentita la metafora – vecchio stile, un po’ ignorantelli. Così ci  vedono all’estero e noi gli diamo quel contenuto lì, quando si prova a raccontare del volto innovativo e creativo dell’Italia, non quello di Italietta ferma agli anni ’50, facciamo più fatica, perché la narrazione globale preferisce incasellare l’italiano medio dentro quella trappola che ci siamo costruiti da soli, perché alla fine gli Oscar noi li abbiamo vinti sempre così, sempre raccontando l’italiano medio. L’unico caso de “La grande Bellezza” alla fine dei conti è un italiano extra-ordinario ma pure sempre un italiano che critica l’italiano medio. Nel più vasto mondo l’ambizione è quella di raccontare storie più metropolitane, storie che abbiano più a che fare con la cifra di un paese moderno quale siamo. Ecco questo è quello che vorremmo fare perché ci sentiamo cittadini moderni, la mia generazione si è formata con l’interrail, con l’Europa unita, con il sogno della globalizzazione tra popoli, non soltanto quella delle merci e della finanza. Ci siamo forgiati nelle battaglie per un mondo migliore che ripudiasse la guerra e per me oggi è pura distopia la guerra in Ucraina o a Gaza, mi sembra un incubo, un tornare indietro di 30 anni, è come se io non avessi vissuto 30 anni a girare per il mondo, a stringere e abbracciare musulmani, ebrei, transessuali, neri, bianchi, gialli, rossi, senza distinzione di razza, colore, religione e credo politico, quindi adesso che la politica del mondo sta tornando nella direzione dei confini, delle piccole patrie, delle ridotte nazionalistiche, questo è il momento in cui chi fa il nostro mestiere deve invece spingere proprio dall’altra parte: il mondo è uno, la razza è una e si chiama razza umana».

Daniele Basilio, Fidelio

Daniele: «Stiamo sviluppando un film in lingua inglese, per il mercato internazionale sul tema della guerra energetica; quindi, c’è l’interesse di trovare temi che valichino. Per fare un film internazionale devi avere un tema internazionale. Ovviamente è un punto di arrivo non è un punto di partenza. Partire con un film per il mercato globale è più faticoso, perché l’industria italiana non crede di poter fare altro oltre i contenuti esportabili in cui viene reiterata quell’immagine dell’Italia come ci vedono gli altri, ecco questo non lo vogliamo fare. Per fare un contenuto internazionale oggi, almeno fino a qualche anno fa, o facevi una storia crime, perché ci vedono sempre come la terra delle criminalità o facevi un prodotto in cui tipicamente raccontavi quell’Italia, di come si immaginano che siamo. Ecco questa strada è una specie di scorciatoia che non intendiamo percorrere perché stiamo cercando di sviluppare un paio di progetti per il mercato internazionale che però non siano su queste due linee ma un po’ più impegnati e profondi».

Per concludere, quali sono i vostri progetti futuri?

Silvio: «Stiamo per avviare la preparazione di una serie televisiva per Rai che si chiama “Hype” ed è destinata ad un’arena più giovanile, ambientata nel mondo della musica rap e trap milanese. Poi stiamo sviluppando altri progetti seriali che immaginiamo di rivolgere a piattaforme digitali, tra i quali un period/biopic molto italiano ma anche molto internazionale, che proverà a coniugare la massima italianità e la massima internazionalità. Abbiamo in cantiere, anche, diversi progetti di film e un progetto true crime a cui teniamo tantissimo».

Daniele: «Abbiamo in sviluppo diversi progetti: un progetto tratto dal romanzo “Le tre del mattino”, di Gianrico Carofiglio, ambientato a fine anni ’80 a Marsilia. Sempre da Gianrico abbiamo anche in sviluppo, con i nostri amici di Clemart, la serie tratta dal romanzo drama-action “Il silenzio dell’onda” che racconta la storia di un undercover cop. Abbiamo in postproduzione poi un documentario su Pino Daniele e in fase di sviluppo la serie già nominata “Hype” e un progetto true crime. Stiamo lavorando anche su un biopic di un personaggio storico italiano importantissimo che speriamo di fare l’anno prossimo. Continuiamo a collaborare con giovanissimi autori che ci portano storie su tematiche molto spesso difficilissime da affrontare ma che possono fare la differenza. La nostra speranza è che con l’uscita di “Antonia” si possa aprire una nicchia di mercato per fare questo tipo di prodotti un po’ più rischiosi tenendo fermo il nostro obiettivo, che non è quello di un prodotto di nicchia per andare al festival, per vincere un premio. Non vogliamo produrre contenuti per cinefili ma per tutti, parlando di temi però importanti perché non crediamo che i cosiddetti tutti non vogliano parlare di temi di rilievo. Quindi secondo noi si può trovare un modo di raccontare storie rilevanti senza chiudersi nella cinefilia».

Fonte delle foto: Fidelio e Rbcasting

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