Un Ubu roi contemporaneo e annichilito senza più territori,
nemmeno interiori, da conquistare, al centro del
nuovo progetto episodico del Gruppo della Creta “La regola
dei giochi”, in scena fino a dicembre al TeatroBasilica
Testo Sofia Chiappini
La cultura rinascimentale, con cui contraiamo ancora oggi un debito profondo, è l’epoca che, per eccellenza, si è elevata a fondatrice di un nuovo modo di pensare. Al centro di questa Weltanschauung, ovvero di questa specifica “visione del mondo”, sta l’uomo. Tuttavia in un’epoca come la nostra, in cui il tentativo di pluralizzazione è diventato assolutamente pervasivo, a volte, basta un po’ di sano politacally incorrect per tornare a vedere le cose in una prospettiva storicamente più adeguata.
Il Regno, uno dei capitoli de “La regola dei giochi” di Anton Giulio Calenda per la regia di Alessandro Di Murro, è la storia di un mondo che continua a sprofondare nel suo individualismo, nonostante si proclami ogni giorno più progredito. Monarchia e individualismo sono per definizione antonimi e non è un caso che, nell’ultimo secolo e mezzo, si sia assistito a un vero e proprio passaggio di testimone tra questi due fenomeni.
Questo perché risulterebbe di certo dannoso e ripugnante pensare di governare un regno ormai pienamente globalizzato, ma anche perché è stato proprio l’individualismo ad aver fondato un nuovo metodo più pervasivo ed efficace, che non ha più bisogno di ideologie in senso tradizionale per conquistare il cuore dei suoi “sudditi”.
Come una fedele fotografia delle nostre vite, l’allestimento di questo Regno ne ha ridotto a tal punto i confini, da essere rimasto spazio soltanto per un trono. Un piedistallo al cui centro sta il protagonista di ogni film che desideriamo vedere: il nostro ego. A scuotere la quiete atarassica del nostro re interiore, c’è un “Super-Io” spietato, puro, implacabile e torturatore. Un’istanza morale che ci è diventata tanto estranea, da essersi separata dal nostro corpo, e che, calcolando ogni gesto con una precisione rassicurante e decisa, si presenta con un abito bianchissimo, quasi fosse un’aliena. Ma l’unico significato che dobbiamo tenere a mente del termine “alieno” è quello etimologico di “altro”: non è necessario cambiare pianeta per imparare a riconfigurare i propri orizzonti, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è qui!
Dedicato alla fondazione già in partenza fallimentare di un “nuovo uomo bianco” lo spettacolo racconta di un restringimento di confini non solo territoriali, ma sociali, emotivi, in ultima istanza mentali, in cui a maturare è solo il nostro crescente bisogno di attaccamento alla normalità, alla nostra statica esistenza. Per questo urge un terremoto. Tra vecchio e nuovo uomo bianco non cambia nulla, questo è ovvio, ma è nel modo in cui noi ad oggi possiamo guardarci indietro, che forse qualcosa può essere fatto. Che l’apertura dei nostri confini mentali e geografici sia una priorità della massima rilevanza, in questo momento rimane una certezza difficile da mettere in pratica. Nella storia recente l’arte si è fatta portavoce, forse più di qualsiasi movimento politico, dei sentimenti di rivolta di chi ha deciso di non schierarsi dalla parte della maggioranza. L’espressione artistica è espressione di una minoranza. Prima ancora di scegliere una fazione politica bisognerebbe, forse, interrogarsi su cosa questo termine rappresenti per noi.
Quest’ultima espressione rimanda a una serie di fenomeni, che molto spesso fanno sorgere in noi sentimenti di paura. Quando la minoranza è politica essa è, a volte, debole e disgregata, altre aggressiva e oppositiva; mentre, quando tale espressione si riferisce a un gruppo etnicamente, geograficamente o culturalmente connotato la minoranza è, in una società democratica e liberale, qualcosa che è necessario tutelare, aiutare, sostenere. E, così, altrettanto, anche il nostro teatro è oggi in rivolta. C’è chi, cercando di creare un sentimento comunitario, fallisce in questo intento e finisce per relegarsi a un ruolo di subordinazione; c’è chi, invece, alza la voce, grida, crea trambusto senza mai raggiungere alcun risultato. Ma esiste anche una maggioranza nella minoranza fatta di persone che si riconoscono in una comunità eterogenea, in dialogo con la società anche se in una situazione di perenne precarietà.
«i combattenti si scagliavano l’un contro l’altro. […] Salvarsi, in tutto il mondo, potevano solo alcuni uomini: i
puri e gli eletti, predestinati a iniziare una nuova razza di gente e una nuova vita, a rinnovare e purificare la terra, ma nessuno in nessun luogo aveva mai visto quegli uomini, nessuno ne aveva udito le parole e le voci».
Così, Dostoevskij ci descrive, nell’epilogo di Delitto e castigo, Raskòl’nikov mentre, in preda al delirio della malattia, sogna un «nuovo inizio», quasi a parodiare il superuomo nietzscheano, nell’annuncio di un «tipo superiore di uomo», che ancora nessuno ha visto sulla terra, ma che tuttavia è promesso, in una lotta profetica e intestina alla civiltà, che non sarà confinata ai soli limiti dell’Europa. E nondimeno, questo gigante della letteratura mondiale prepara a un altro inizio, in cui a rendersi necessaria non è la guerra, bensì un’apertura all’altro.
Dostoevskij parla qui di sacrificio «mediante l’amore» del «proprio io […] a un altro essere». E non è forse questa, in ultima istanza, l’unica ragione valida per credere ancora in una feconda minoranza dedita all’arte? Quest’ultima è destinata, se vuole salvarsi, ad abbandonare la rassicurante sfera del puro e semplice intrattenimento, in favore della ricerca. Un tipo di sperimentazione lontana da quella degli anni ’70, che ha come unica possibilità di successo quella di aspirare a una nuova forma di spettacolarità, che riacquisti il suo carattere propriamente conoscitivo e non, come spesso accade, cristallizzato nella dicotomia tra intrattenimento e denuncia politica.