Ivan Castiglione e l’incorreggibile intento di ricominciare domani da capo, con entusiasmo e meraviglia, tra scena e realtà.

17 Marzo 2022

Un’intervista- dialogo a due voci con il noto attore partenopeo per inaugurare la rubrica “Espressioni attoriali”, che intende esplorare il mestiere dell’attore, spaziando tra uomo e interprete, vita e palco.

Amo profondamente gli attori, il mestiere dell’attore, la loro capacità di entrare nelle storie, di immedesimarsi nei personaggi, farli vivere, di uscire da sè per diventare altro, o forse la forma più vera di sè. Trasformare la parola in carne ed ossa. Scandagliare le emozioni, impersonarle, indossarle, farle proprie e farle vibrare sulla pelle degli altri, dopo aver attraversato la propria. Ricreare e rivivere storie, tramandarle agli altri… Indagare, inventare, denunciare…Quanto può un attore!! Sono carne, viscere, nervi, mente, anima, cuore.

Così, ho pensato di riservare una rubrica, un appuntamento dedicato a questo meraviglioso mestiere, a questo modo di essere, questa attitudine, questo dono sacro, e di intitolarlo “Espressioni attoriali”, ispirandomi alla poesia di Wislawa Szymborska “Impressioni teatrali”, che al meglio esprime cosa voglia dire essere attore e vivere l’anima del teatro e della scena.

Ho scelto di inaugurare questo “momento” con un attore che la vita, il destino, mi ha posto di fronte, per caso, come avvengono tutti gli incontri più significativi che in qualche modo, senza un apparente motivo, ti colpiscono, ti toccano, ti lasciano un segno, e con il quale ho deciso di indagare questo labile confine tra uomo e interprete, tra maschera e corpo, tra palco e realtà.

Ivan Castiglione è un attore atipico nella formazione e nel suo modo di essere. È un artista puro, frutto di istinti, talento, vita, esperienze, passione. È essenzialmente un uomo che ha trovato un punto di incontro tra la sua essenza e il suo essere attore. Una persona che è in costante contatto con le sue emozioni, in connessione con il suo io, e lo tramuta in altro, in altri se diversi da se, per farsi portavoce di storie, di realtà, di arte.

Ha lavorato con grandi nomi del panorama teatrale, cinematografico e televisivo italiano e internazionale, come Claudia Cardinale, Giorgio Albertazzi, Roberto Saviano, Ugo Pagliai, Nello Mascia, Gianfranco Funari, Beppe Ferrara, Caterina Guzzanti, Corrado Guzzanti, Stefano Reali, Pasquale Squitieri, Paola Gassman, Antonio Calenda, Aldo Nove, Luigi Di Berti, Daniele Luchetti, Nicolai Lilin, Ricky Tognazzi.

È stato il primo a portare in scena, a teatro, Gomorra, interpretando Roberto Saviano,  con cui ha vinto il Golden Graal come migliore attore protagonista italiano del 2008.

Impegnato, impegnativo, eclettico, travolgente, vibrante, un vulcano di energia, passione e entusiasmo, come il suo essere napoletano. Lo definirei un Vesuvio in costante eruzione, un camaleontico Avengers, un’aorta che pulsa sotto pelle, un artista a 360 gradi, ma soprattutto un uomo che si lascia sorprendere dalla vita, dalla sua imprevedibilità, dal restare in costante ascolto con le proprie sensazioni e con quelle degli altri.

Un interprete che crede fortemente nel lavoro di squadra, nella potenza del teatro, del cinema e del mestiere dell’attore, che fonda gran parte della sua consapevolezza nell’incorreggibile intento di ricominciare domani da capo, che è il senso primordiale di questo mestiere, ma essenzialmente della vita stessa: essere pronti ad aggirarne i colpi, oppure lasciarsi travolgere, farli propri, cadere, soccombere, ferirsi, rialzarsi, e ricominciare più forti di prima. Migliori. Da zero, che in realtà è mille, è tutto. Perché siamo il frutto del nostro passato, delle nostre esperienze, di chi ci si circonda, di una “valigia” che ci porterà verso un futuro imprevedibile, dove tutto è possibile. Come sulla scena, appunto. Dove si sta nel presente, si esiste in quel momento, ed è proprio in quel momento in cui si è stati, si è, e si sarà.

Abbiamo intessuto un dialogo a due voci, in cui spesso mi sono trovata, ritrovata e specchiata, che offre spunti di riflessione su questa professione, che io definisco vocazione e dono, sul teatro, sull’essere, sull’apparire, sulla capacità di meravigliarsi, sorprendersi, sull’esistenza, sui sogni, le speranze, sull’amore, inteso come urgenza di espressione di sè e degli altri, sull’umanità che fa grande una maschera, un personaggio, un attore, con le sue fragilità, i suoi limiti, il suo senso del finito, della costante incertezza, della caducità, dell’essere qui e ora, ma inconsapevolmente mai, o meglio per sempre, grazie a quell’arte di cui si può fruire, che lo rende eterno. A suo modo, dunque, immortale in quelle impressioni teatrali che permettono di calpestare l’eternità con la punta della scarpina dorata, di allinearsi tra i vivi con la faccia al pubblico, di risorgere ogni giorno dalle battaglie della scena e della vita.

Come riemergi dalle battaglie della scena? Per te cosa è la scena? Quanto ti porti dietro della scena nella vita?

Sono onorato di inaugurare una rubrica dedicata al teatro, al giorno d’oggi è un’eccezione.

E’ difficile esprimere a parole cosa voglia dire entrare e uscire dalla scena. Credo che quando si reciti, ci si senta vicini a Dio, pure se si è atei, perché avviene una forma di sviluppo delle capacità sensoriali, si riescono a fare milioni di cose contemporaneamente. La scena è forma di esaltazione della vita, del mio essere. Sul palcoscenico si assiste ad un incredibile gioco: nel tempio della finzione avviene una vera e propria manifestazione della verità della vita, in cui non c’è presente, non c’è passato, c’è lo stare lì, in quel momento. È come se entrassi in una espressione massima di me stesso tramite il personaggio, e abbandonarlo crea una forma di abbrivio, poiché ti ritrovi ad avere sotto pelle le sensazioni che hai vissuto. Ho avuto la fortuna e il privilegio di portare in scena per tanti anni “Gomorra” e ogni volta provavo delle emozioni faticose e difficili che mi rimanevano addosso, diventavano forme di analisi di me stesso. A volte andare in scena è come una seduta di psicanalisi, in cui conosci te stesso tramite il gioco della finzione. Di sicuro, la scena migliora il tuo essere.

Qual è il tuo rapporto con il pubblico? Che rapporto bisognerebbe avere con gli spettatori? Non credi che bisognerebbe intessere un dialogo che inizi prima dello spettacolo, si sviluppi sulla scena e  si consolidi dopo?

Io credo che il pubblico ha bisogno di vivere quell’eccezione che si crea solo in teatro. E’ necessario raccontare storie ed emozioni oneste, fruibili. Entrare in teatro e’ come entrare in un tempio, c’è un’attitudine all’ ascolto più alta. Dobbiamo cercare di trasmettere quella magia sempre. Lo spettacolo deve essere curato, il teatro deve essere popolare, non legato a forme di comunicazione pubblicitarie. Uno spettacolo davvero  bello e ben fatto, piace al pubblico, alla critica e agli addetti ai lavori. Un direttore di un teatro, come lo stesso artista, deve assumersi delle responsabilità, che risiedono nell’onestà di voler raccontare l’amore, l’odio, temi politici. Il pubblico va affascinato, soprattutto i ragazzi che saranno gli spettatori del futuro.

Sei un attore atipico nella formazione. Non hai seguito una scuola, un’accademia… La tua scuola probabilmente è il talento, e la vita. Chi sono i tuoi maestri e pilastri teatrali?

Sono laureato in Economia e Commercio, nonostante la mia natura sia completamente diversa da ciò che ho studiato, e dunque, ho iniziato a dedicarmi alla recitazione in maniera professionale relativamente tardi, a 25 anni, quando purtroppo non era più possibile entrare in Accademia, poiché c’era il limite di età. Ho avuto però la fortuna di conoscere e lavorare con grandi maestri dai quali ho potuto imparare molto e, inoltre, mi metto sempre nelle condizioni in cui anche un attore più giovane può insegnarmi qualcosa.

Secondo me essere attore e’ un po’ una vocazione

Deve esserci una base di talento, però non sta a me dire se io ce l’abbia o meno. Faccio questo lavoro da tanti anni e per me è un traguardo vivere di questa professione in un paese che non pone al centro del suo essere la cultura. Tutte le persone che incontro sono per me come maestri, cerco di mettermi in ascolto, voglio sapere cosa ne pensano. La mia fonte di ispirazione, come un po’ tu hai detto, è la vita, mi viene molto dalle persone che incrocio quotidianamente, le sento dentro.

Bisogna esercitare l’empatia, come ho scritto nel mio ultimo editoriale.

Esattamente, è fondamentale. Il bello di questo lavoro è che ci sono diversi tipi di attori… Altri che non esercitano empatia, ma sono bravissimi. Hanno tecnica, talento. Io porto avanti il mio essere da sempre, ossia sentire le persone, la vita. Cerco di raccontare attraverso uno spettacolo la vita, dunque, come faccio a non partire dalla vita stessa? Da ciò che guardo, ascolto o immagino tutti i giorni.

Ci sono dei testi che ti hanno fatto da guida? 

Si, ovvio, aver letto Shakespeare non ti lascia indifferente, o Eduardo, Lo Zoo di vetro, il Faust. Ci sono testi e parole che ti ispirano e migliorano la vita. La lettura di un testo può diventare un momento epico.

Quando hai avuto la consapevolezza di essere diventato un attore?

Quando ho iniziato la mia carriera dicevo: sarò attore quando avrò fatto 100 provini, mi avranno detto no a tutti e 100, e nonostante ciò, continuerò a desiderare di fare questo mestiere. Io non ho mai detto faccio l’attore, bensì sono un attore.

Attore si è!

Si, si intreccia troppo con il mio essere, poi è chiaro la prima busta paga ti da uno status (ride)!

La tua prima volta in scena? L’ultima? La prossima?

La prima volta in scena è stata nel ‘96 con uno spettacolo di drammaturgia contemporanea di Mario Gelardi, che incredibilmente è il regista anche dell’ultimo spettacolo con cui sono stato in scena, “Plastilina”. C’è un legame…. Lo spettacolo si intitolava “Tutte le donne”, un testo sulle coppie. Un lavoro profondo e divertente.

L’ultima volta in scena è stata due mesi fa al Teatro Nuovo di Napoli con “Plastilina”, appunto, di Marta Buchaca, con la regia di Mario Gelardi, in cui si raccontano le generazioni di oggi.  Ho interpretato un papà con una moglie splendida come Teresa Saponangelo. La prossima sarà al Teatro Bolivar di Napoli, dove canterò delle canzoni nella presentazione del nuovo disco di Francesco Forni. Sono le musiche tratte dallo spettacolo “Spacciatore” con la regia di Pierpaolo Sepe, che ha debuttato a maggio scorso al Teatro  Mercadante.

Chi è Ivan attore? Chi è Ivan uomo? Quanto c’è dell’attore nell’uomo e quanto dell’uomo nell’ attore? Sei mai stato te stesso in scena? Hai mai recitato nella vita?

L’intreccio è difficile da discernere, sono come due fluidi che si uniscono e confluiscono. Non c’è mai una forma di finzione e falsità, né in scena, né nella vita. È difficile definire chi sono… Sia sulla scena, che nella vita, onestà, passione, determinazione e amore sono dei sentimenti e valori che mi piace coltivare nei confronti dei colleghi, amici, persone che mi circondano. Il gesto artistico, come la vita, è un gesto intimo. Si può essere leggeri, ma bisogna riconoscersi. L’intento è sempre quello di metterci tutto me stesso, non mi riesce di fare le cose a metà.

Credo che il mestiere dell’attore abbia strettamente a che fare con la pancia, con le emozioni … Entrare e uscire da se stessi per donare un qualcosa agli altri. L’attore è l’atleta del cuore. Come alleni il tuo cuore? Come lavori e convivi con le tue emozioni?

Vivendo, esplorandomi, imparando sempre. A teatro ancora di più, perché c’è una ritualità che ti permette di stare maggiormente a contatto con i colleghi, con il testo di un autore e con la vita delle persone. Mettersi in maniera, anche cruda, di fronte alle proprie difficoltà, in generale, sia nella vita, che in scena, è necessario. Quando sei scomodo, o sei in difficoltà, avviene qualcosa, cresci. Quando sei comodo, stai nel tuo, non c’è crescita.

Per me la stessa cosa avviene con la scrittura… Quando scrivo sono completamente senza filtri..

Talvolta i filtri sono scelte, parti dal tuo pensiero e puoi essere accattivante, dare ritmo, ma il gesto è intimo e nell’ascolto di se stessi. Parte tutto da lì.

Hai lavorato a teatro con Claudia Cardinale, Giorgio Albertazzi, Roberto Saviano, Ugo Pagliai, Nello Mascia, Gianfranco Funari, Beppe Ferrara, Caterina Guzzanti, Corrado Guzzanti, Stefano Reali, Pasquale Squitieri, Paola Gassman, Antonio Calenda, Aldo Nove, Luigi Di Berti, Daniele Luchetti, Nicolai Lilin, Ricky Tognazzi. Qual è il momento che porti nel cuore? Cosa e chi ti ha lasciato o insegnato di più?

Sicuramente i cinque anni dedicati a “Gomorra” sono stati un momento epico che non dimenticherò mai, fanno  parte di me e del mio percorso. Creammo il progetto prima dell’uscita del libro, ci fu un itinerario di scoperta. Con Roberto Saviano e Mario Gelardi abbiamo dato vita ad una forma di sensibilizzazione verso questa piaga, facendola combaciare con un gesto artistico.

Oppure ripenso a quando ho lavorato in Scozia, nel Regno Unito, con il National Theatre of Scotland, con degli attori formidabili, una produzione enorme, o ancora a quando ho girato una serie in Olanda…Quando arrivi a prendere parte ad un progetto internazionale, sei orgoglioso e ti emozioni.

Mi sorprendevo, e ancora mi sorprendo. La capacità di sorprendersi è un’altra dote fondamentale. Se la dai per scontata vuol dire che stai correndo. Stai guardando dove vuoi arrivare. Il percorso, invece, è fondamentale e sorprenderti è necessario.

Mi hai anticipato. Quanto la valigia dell’attore influenza il percorso, il viaggio?

Il percorso influenza, però stride con la capacità di sorprenderti. Se ho già interpretato personaggi simili, restano lì. La valigia te la porti dietro e ci vai a pescare dentro, però ci sono cose che devi anche tenere da parte, perché devi mantenere sempre un occhio genuino, vergine, su quello che sta avvenendo in quel momento.

Sei stato appunto ideatore, con Mario Gelardi e Roberto Saviano, e protagonista, nel ruolo di Roberto Saviano, della versione Teatrale di “Gomorra” di Saviano stesso.  Dove risiedeva la potenza di quell’operazione? Hai mai pensato di riprenderlo? Hai portato l’attualità in scena, credi che il teatro abbia la forza per cambiare la realtà? Attuare una riflessione?

Quando Roberto Saviano ha scritto “Gomorra”, nessuno poteva pensare che un libro potesse realmente influenzare la società. Abbiamo appunto portato nel tempio della finzione, la verità. Dopo, con il libro, lo spettacolo e il film di Garrone, c’è stato uno scoperchiare una realtà che non si sapeva fino in fondo, si è svelata una nuova consapevolezza. Anche se siamo artisti, inevitabilmente prendiamo parte alla formazione della coscienza di un cittadino. In quello spettacolo avveniva in maniera diretta. Diventava vita.

In generale, il teatro e le forme d’arte creano la coscienza di un popolo, non a caso nei grandi Paesi e’ centrale l’arte, perché è riflessione sulla contemporaneità. Va benissimo andare a cena fuori, ma bisogna nutrire l’anima con l’arte che crea sensibilità, la coscienza di  un popolo, un tempo nostro. In “Gomorra” era una cosa diretta, ma avveniva anche nello “Zoo di vetro” che ho interpretato accanto a Claudia Cardinale. Quante persone quando tornano a casa hanno esigenza di un confronto con se stessi, e l’opera d’arte permette tutto questo. L’intrattenimento è necessario.

Riprendere “Gomorra” non sarebbe anacronistico, la piaga non è svanita, anzi. Potrebbe avere un senso riprenderlo, ma vediamo la sensibilità ora dove è! Ci sono altre problematiche. Bisogna raccontare la vita e guardare in faccia ciò che non ci fa vivere bene, se vogliamo fare un teatro civile. Poi c’è la fantasia, il classico, che sono altre forme per riallacciarsi all’oggi.

Hai interpretato Saviano… Una persona realmente vivente. Come hai costruito questo personaggio?

È stato un lavoro pazzesco e complesso. Già è raro per un attore poter interpretare una persona vivente. Mi è capitato di impersonare anche altre persone in vita, però Saviano in più era un amico, e all’inizio non era un personaggio pubblico così conosciuto. Il suo sguardo è diventato il mio sguardo. Scrissi anche un testo,  “Essere Roberto Saviano”, che poi fu pubblicato. Era un intrecciarsi in maniera violenta e profonda della mia vita e la sua.

È un privilegio per un attore interpretare un ruolo così e alcune caratteristiche di Roberto sono diventate mie. Ad esempio, Saviano gesticola molto con le dita della mano, perché è come se mettesse in ordine i suoi pensieri che sono tanti, e vanno canalizzati nella parola e nello scritto. Ancora oggi, ogni tanto, a distanza di anni, quando sono a casa e i pensieri sono tanti, il mio dito sinistro indice con il medio si sfregano, come allora.

Hai lavorato al National Theatre of Scotland, dove sei stato coprotagonista di The Driver’s Seat per la regia di Laurie Sansom. Che differenza c’è con l’Italia?

Sentivo che il teatro era centrale nell’attività culturale di quel paese. Questo in Italia sembra un po’ perso. Da un punto di vista artistico, invece, ho trovato aspetti simili ai nostri:  attori con cui si discute, si approfondisce. Il gesto artistico è uguale, cambia il pubblico, perché noi vediamo la cultura e l’arte come qualcosa di non necessario, mentre li è vita. Mi sono sentito al centro di qualcosa di importante, che avviene nel confronto tra pubblico e opera artistica.

Dico sempre che il teatro e l’arte mi hanno spesso salvata… A te è capitato?

Non lo so,  perché per me non c’è più la scissione. Vita e arte si intrecciano anche ora che sto parlando con te. Sicuramente il teatro aiuta a ritrovarsi in qualcosa, scopri un centro di te stesso, può accoglierti o raccoglierti in base alla fase della vita. Gli spettacoli possono essere momenti in cui ti vedi, ti osservi. L’emozione è qualcosa che nasce dall’anima e tutto ciò che la crea non può che essere necessario quanto una parmigiana di melanzane, che è il mio piatto preferito (ride).

Hai poi lavorato molto al cinema e in tv… Credo che non bisogna mai chiedere ad un attore cosa preferisca… Un attore è un attore sempre.. Cambia che li si reciti con il filtro dello schermo, della macchina da presa. Che rapporto hai con la macchina da presa? Hai un volto che spesso ti ha legato a dei personaggi “cattivi”…Ripenso a “Ultimo”, “Il Clan dei camorristi”, “Sotto Copertura”, “I Bastardi di Pizzofalcone”, “Rosy Abate”.  Hai mai avuto paura di rimanere ingabbiato in questo ruolo?

Ho interpretato anche dei buoni, ma i cattivi si ricordano sempre di più… E’ molto affascinante interpretare il ruolo del cattivo. Dipende anche dalla fisicità, che influenza sicuramente. Non ho mai avuto paura di rimanere ingabbiato in un personaggio, anche perché ho avuto il privilegio di interpretare ruoli molto diversi tra di loro. Roberto Saviano non era un killer, ad esempio.

Il rapporto con la macchina da presa è meraviglioso. Quando parlo con un’attrice e c’è una macchina che mi riprende, il gioco attoriale è sempre lo stesso, cercare di essere l’altro.  Se sono in scena e, ad esempio, sono al Teatro Greco di Siracusa, devo avere un sostegno vocale e gestuale maggiore. Se sono in un primo piano, un deglutire o uno sguardo raccontano molto, talvolta tutto. Per me tra set e palco non c’è differenza dal punto di vista artistico, la centralità del gesto e’ uguale: vivere l’altro che stai creando con il tuo compagno di scena, il regista e il testo. Certo, nel teatro c’è l’adrenalina del continuum, del non poter rifare, del pubblico che è lì e cambia ogni sera.

Qual è il tuo film preferito?

Uno? Milioni… Difficile dirne uno, forse “8 e mezzo” di Fellini.

Il mio “Fino all’ultimo respiro di Godard”,  in cui c’è una battuta memorabile, che adoro:  “Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore. E tu cosa sceglieresti?”

Io il dolore… Tu?

Il dolore è una forma di pathos, di sentire la vita, ti rende protagonista della vita. Il nulla è come starne fuori. Vivere una vita solo di dolori può essere davvero faticoso, quindi facciamo dolore e gioia! Una vita di nulla, direi no! Ne “La Storia Infinita”, ad esempio, il male era rappresentato dal nulla che mangiava tutto e non rimaneva niente, mangiava la stessa vita che è fatta di dolore, gioia e tanti altri sentimenti.

Sei napoletano, che ruolo ha Napoli nel tuo essere attore? E nel tuo essere uomo?

Io vivo da più di 20 anni a Roma, ho lavorato ovunque, ma Napoli è nelle mie ossa, nella mia anima. Come faccio a non pensare in napoletano!! Napoli è un modo di sentire ed essere molto viscerale, intenso, influenza tutto. Anche quando ero in Scozia, c’era Napoli dentro di me. Napoli è la mia aorta, una vena pulsante. Napoli scorre e non va via. Senza non si vive.

Dunque sei superstizioso?

In Inghilterra insegnai agli inglesi a dire “merda merda merda”. Io sono superstizioso, ho inventato la cosiddetta “scaramanzia sequenziale”, e immaginala in una tournée lunga. Ti spiego: mangio una gomma a un’ora dallo spettacolo, allora mi fisso che devo mangiare una gomma sempre a quell’ora prima dello spettacolo.  Poi metto una bottiglia d’acqua in un posto e devo rimetterla sempre lì, ecc. Queste cose aumentano di replica in replica. Tutto ciò mi aiuta a mantenere l’attenzione per andare in scena, ma se quella cosa non avviene, ho paura che accada il finimondo… In realtà non succede niente! Come diceva Eduardo…

Non è vero ma ci credo.

Esatto, proprio così! Invento delle scaramanzie sequenziali, che finito lo spettacolo, svaniscono.

Però purtroppo le tournée sono sempre più brevi…

L’Italia è grande, bisognerebbe tornare nelle province. Ogni piccolo centro possiede teatri meravigliosi che andrebbero ripopolati. Ora, per le normative in vigore, è complicatissimo far girare gli spettacoli. È ingiusto!!

Credo che alle basi di tutte le arti ci sia la musica. So che suoni e canti… com’è nata questa passione e come è entrata a far parte del mestiere dell’attore?

Io nasco dalla musica, la prima volta che sono salito su un palco cantavo. Suono la chitarra e il piano, ho studiato canto, anche se per natura sono musicalmente intonato. Ho lavorato in un musical nel 2004, “Candido.Soap Opera Musical”, con Caterina Guzzanti e Funari, su un testo di Aldo Nove, con la regia di Andrea Liberovici, cantavo 14 canzoni e fu un’esperienza meravigliosa. Nasco cantando e ho cantato anche in “Spacciatore” con la regia di Pierpaolo Sepe. Canto come un attore canta.

Al di là dell’aspetto del canto, però, la musicalità per me è intesa come ascolto di una pausa, un silenzio, è imprescindibile. La musica fa parte di me. È parte integrante dell’esercizio, del ritmo delle battute. Anche parlare è musica.

Eh non dirlo a me che per sfogarmi addirittura canto!!

Cosa consiglieresti a un giovane che vuole intraprendere questo mestiere?

Oggi è molto strano, perché le scuole sono diventate di più, ci sono più accademie. La possibilità di formarsi c’è, però a volte i giovani non considerano il teatro come qualcosa che faccia parte del mestiere dell’attore, e mi chiedo come sia possibile questo!! Gli attori americani e inglesi, che sono i più bravi, esplorano e si sperimentano a teatro. Il palcoscenico è imprescindibile per chi intende intraprendere questo percorso. Bisogna avere la curiosità di leggere, confrontarsi, fare un laboratorio. Questa estate, ad esempio, tra le esperienze del cuore, ho recitato all’Odin Teatret, un tempio dello studio, un laboratorio perennemente aperto, di un certo tipo di teatro. Bisogna, dunque, capire quale è il motore di un giovane attore che lo spinge a voler avventurarsi verso tale professione. Serve una spinta sana e onesta.

Sei anche regista?

Ho diretto uno spettacolo su Pasolini per molti anni, perché lo sentivo completamente mio, però sono essenzialmente un attore. Ci vuole una visione altra per essere un regista. Potrei essere bravo nello sviscerare dei dialoghi, ma la regia è diversa… Può darsi che capiterà che curerò altre regie. Sono sempre molto legato al gesto attoriale e spero di lavorare con registi che abbiano l’urgenza di raccontare una storia pura.

Per quanto riguarda la scrittura? Hai mai pensato di scrivere un tuo testo?

Io credo sia necessaria un’urgenza.. Hai un’urgenza in questo momento?

Ho scritto dei testi. Con Mario Gelardi ho scritto “Così leggero”, finalista al Premio Riccione e ho partecipato alla scrittura di diverse drammaturgie. Credo di essere un bravo collaboratore alla scrittura, mi piace molto lavorare in squadra, anche sul set. Ci sono dei progetti in cui ho scritto, che ho pensato e sviluppato. Mi piace la collaborazione, mi piace il confronto, il processo di creazione collettivo. Già sviscerare un testo, come fanno gli attori, è quasi un processo di scrittura.

Cosa ti ha lasciato questo periodo pandemico? Cosa pensi di questa crisi e di questi problemi in ambito teatrale e non solo? Come vedi la scena oggi e nel futuro? Cosa bisognerebbe fare? Dal punto di vista organizzativo, ecc.

Oggi, al di là dei teatri stabili, che hanno sovvenzionamenti, bisognerebbe iniziare a sostenere anche le compagnie che hanno pochi finanziamenti e i piccoli teatri  che esercitano un lavoro costante sul territorio. Mi riferisco, ad esempio, al Nest di Napoli o al Nuovo Teatro Sanita’, che sono realtà che conosco bene. Conosco il lavoro che fanno con il pubblico e cosa meriterebbero. Se domani chiudessero questi teatri, il quartiere ne  sentirebbe la mancanza. Per gli abitanti di San Giovanni a Teduccio o del Quartiere Sanità, che sono due quartieri difficili di Napoli, il teatro è importante, fondamentale, vitale. Vorrei vedere le proteste dei cittadini per le difficoltà teatrali, non degli addetti ai lavori. Ci arriveremo, ne sono certo. Questi momenti ci riavvicinano alla vita, e l’arte è forma di espressione della nostra esistenza. Dobbiamo cercare di aiutare delle realtà nobili, avere attenzione, fare spettacolo non tanto per fare. Cercare di avere cura, così il pubblico potrà  tornare ad avere urgenza di tornare a teatro, al cinema.

L’attore ha di base un ego importante! Anche i giornalisti eh… La firma in calce all’articolo è tutto ego!!

Il tuo? Che rapporto hai con il tuo ego?

La parola ego è l’io. Noi viviamo con insito il concetto di carriera, del domani. C’è una progettazione del futuro che forse dipende dal non voler accettare il senso di fine, di morte, di cui abbiamo paura. L’attore, come tutti quelli che fanno un lavoro che tende a finire, ha timore, non sa cosa farà per i prossimi dieci anni. Bisogna allora aggrapparsi al proprio io per superare tutto ciò. Il rapporto con il mio ego vuol dire essere qui, perché non so dove sarò. È vero che oggi anche nelle altre professioni è subentrato il concetto di precarietà, appartiene quasi a tutti, ma per chi lavora con l’arte, ancora di più. Si deve riiniziare sempre, e quando devi ricominciare, non dico che si deve iniziare da zero: si  parte con una valutazione fisica attoriale, e il rapporto con l’ego diventa una maniera sana di vivere il presente. Essere egoriferito non mi appartiene e non mi interessa. Vivo costantemente in contatto con il concetto di fine e quindi di morte, e mi appoggio a ciò che sono ora.

Noi siamo ora… Magari tra due ore non ci sono più, la morte è qualcosa che sta con me, sulle mie spalle. Anche il mestiere che ho scelto, è costituito sulla costante incertezza…

Esatto, c’è questa forma di incertezza … L’ego è misura del mio stare, non ha l’ accezione spicciola della vanità. È termometro di quello che io sto vivendo. C’è un continuo dissidio: tendiamo a finire e non vogliamo accettarlo. L’Ego, quindi, va inteso come strumento e forma di lotta e sconfitta della caducità con la capacità di sorprendersi. E rinascere ogni giorno con entusiasmo.

Come il verso più bello della poesia da cui siamo partiti “L’incorreggibile intento di ricominciare domani da capo.” È un po’ ciò che ogni attore deve fare alla fine di uno spettacolo, alla fine di un film, di un provino… Che poi racchiude il senso della vita non credi? Da dove ricominci ogni giorno? O ricominceresti?

Dall’io, da quello che sono, appunto. Quando ho paura, in momenti in cui non ho un lavoro, ho la certezza che se prendo un testo e lo leggo, qualcuno mi ascolta. È quello che è mio e che so fare. Parto da chi sono, dall’io e da chi mi circonda e spesso mi rispecchia.

Simbolo dell’attore è la maschera. La tua com’è? La indossi? Che rapporto hai con la tua immagine e con quella che percepiscono gli altri?

Nella realtà non mi cruccio molto di ciò che pensano gli altri, spesso nella vita si giudica l’apparenza, le maschere della vita, che poi sono difese e fragilità che raccontano un percorso. Dal punto di vista attoriale, invece, c’è una maschera stabilita, un personaggio che ti protegge, e ciò che percepisce il pubblico, me lo pongo. Si diventa ciò che porti in scena e il giudizio diventa un giudizio artistico che rientra in un altro parametro, di cui mi preoccupo. Arriva ciò che io voglio trasmettere? Il gesto artistico ha bisogno del recettore, nella vita questa necessità non c’è sempre.

Cosa ti spinge a scegliere un lavoro? Un percorso?

La paga (ride) ….Innanzitutto quando si può scegliere!! Cerco progetti che possano permettermi di raccontare storie necessarie a noi e al pubblico.

Hai mai sentito l’esigenza di trasmettere il tuo sapere teatrale?

È molto faticoso. Mi è capitato di far esperienze di insegnamento e preparazione ai colleghi. È stimolante. Cresci anche tu. Non essendo un accademico, quando mi capita di insegnare, cerco di dare il massimo, di creare un’empatia con la persona alla quale sto cercando di trasmettere il mio sapere, la mia esperienza. È una forma di accrescimento.

Se non avessi fatto l’attore cosa avresti fatto?

Il pompiere ovvio ( ride)… Non ci ho mai pensato, non ne ho idea. Sicuramente qualcosa che ha a che fare con le persone e non con un computer….Mi piacciono le persone come forma di vita. L’umanità.

Se dovessi fare un bilancio della tua vita e carriera? Se ti venisse dato il super potere di tornare indietro cosa cambieresti?

Oggi ho una forma di serenità nei confronti del mio lavoro che in alcuni momenti della mia carriera era un po’ sfocata. Sono felice del mio percorso, vorrei rifare tutto ciò che ho fatto, magari con un’attenzione e tranquillità maggiore. Però va bene così. Nella vita si deve provare e talvolta sbagliare, e a volte anche i piccoli errori sono parte di ciò che adesso è la tua valigia. Vorrei avere questa consapevolezza in più, però oggi sono così proprio poichè prima non l’avevo avuta. Forse non cambierei nulla, non ho rimpianti. E nemmeno rimorsi. Ho guardato sempre in faccia la vita.

È bello non aver rimpianti.

Io tra rimorsi e rimpianti preferisco avere rimorsi. Odio i rimpianti e qualcuno purtroppo ce l’ho!

Cosa apprezzi di te, cosa non sopporti? Come uomo e attore.

Sono un capricorno ascendente pesci, dunque, ho una componente fortemente emotiva, una forte sensibilità artistica e allo stesso tempo una rigorosa precisione. Posso arrivare tardi ad un appuntamento di svago, ma mai ad uno di lavoro. Come attore quindi mi piace la mia tenacia, la capacità di centrarmi e di ricercare “l’anima” delle situazioni e delle persone. La stessa cosa come uomo: nella vita sono aperto all’ascolto, ho sensibilità e cerco di essere opportuno, di dire la parola giusta al momento giusto.

Sei un uomo fragile secondo me…

Ho le mie fragilità, come tutti. Le fragilità sono occasioni, sono punti in cui vai a scavare. L’importante e’ che non siano invalidanti nella vita.

E non c’è nulla che non sopporti di te?

Non sopporto quella che è una diretta conseguenza della mia estrema sensibilità, che mi porta a dispiacermi per situazioni o persone che non meriterebbero molta attenzione. La troppa sensibilità è un pregio, ma talvolta può trasformarsi in un difetto.

Quanto ti capisco… So benissimo cosa vuol dire! Quanto si soffre nel sentire sempre tutto con la pancia e con il cuore! Non si riesce a far scivolare via nulla.

Credo che il teatro sia fatto di carne, viscere, famiglia… Hai una famiglia teatrale?

Alcuni amici sono storici, li conosco dal liceo, sono pezzi del mio corpo, così come gli attori di “Gomorra”. Spesso sul lavoro nascono amicizie, amori.

Qual è il tuo rapporto con i media? E i social?

Io ci sono sui social, non sono un fan accanito, ma se faccio un film o uno spettacolo e tramite un social le persone possono venire a vedermi, ben venga. Sono un mezzo di comunicazione che mi interessa, vivo di comunicazione.

Il mio rapporto con la stampa? Sto facendo un’intervista, quindi direi buono (ride).

La stampa è una forma di comunicazione importante, anzi la critica teatrale è un termometro dell’attenzione artistica. Sempre citando il Regno Unito, lì alcuni spettacoli fanno tournée se hanno avuto recensioni positive. In Italia, un tempo, quando si debuttava, il giorno dopo si aspettava il giornale per leggere cosa scrivevano i critici, perché a volte spostavano delle attenzioni. La critica è importante per  la centralità dell’arte nel nostro paese, e deve ritornare ad esserlo. Chi legge una recensione teatrale oggi? Questo bisogna chiedersi… Se il pubblico non ha necessità di andare a teatro, al cinema, la comunicazione avviene solo tramite pubblicità. Invece un critico, che dovrebbe avere la sensibilità di comprendere determinati progetti, dovrebbe essere letto non dagli addetti ai lavori, ma dal cittadino comune.

Il critico dovrebbe essere uno spettatore privilegiato per regalare a tutti le emozioni, le immagini di ciò che ha avuto il privilegio di vedere…

La critica è indispensabile. Deve tornare a essere  parte fondamentale di un sistema. Ci sono state anche delle deformazioni… I critici hanno avuto a volte il potere di decidere se un progetto poteva continuare o no, questo mi sembra un po’ troppo. Io leggo le recensioni, ma sono un addetto ai lavori. Spesso le leggo dopo aver visto uno spettacolo,per capire se ho colto una determinata cosa. Ti confronti. È fondamentale un processo di centralizzazione dell’arte, come necessità di vita. Un critico deve offrire stimoli per affrontare le cose in maniera diversa. Il bello e il brutto fanno parte del gusto, non si può piacere a tutti, però dall’esterno ti possono arrivare input per accrescerti.

Progetti futuri? Sogni realizzati e sogni da realizzare?

Per quanto riguarda i progetti teatrali, ci sarà la ripresa di “Spacciatore” a Natale prossimo a Napoli. A breve partiranno le riprese del film “Rumore”, opera prima di Nicola Telesca, a cui sono molto legato. A settembre, per la Rai,  invece, andrà in onda una serie tratta dai libri di Diego de Silva , “Vincenzo Malinconico, Avvocato”, dove ho avuto la fortuna e il piacere di lavorare con un regista bravissimo, Alessandro Angelini, e attori straordinari come Teresa Saponangelo, Massimiliano Gallo, Francesco Di Leva.

Ho molti sogni… Il mio sogno è fare gli Avengers, essere un nuovo Avengers. Un X-Men.

Con quale super potere?

Lascio agli sceneggiatori il potere da darmi. Sarebbe fantastico!!

Scherzi a parte, sogno di continuare a fare il mio lavoro con questa centralità, poi quello che verrà, andrà bene. Vorrei continuare il mio percorso! Tutto ciò che ho fatto, è già un sogno realizzato.

Sogni invece di lavorare con un regista in particolare?

Tanti…Visto che è napoletano come me ed è candidato agli Oscar, ti dico Sorrentino. Magari!! È straordinario.

Io lo amo… Sogno di essere un primo piano di Sorrentino. Credo che solo con una diapositiva mi farebbe parlare. Fa parlare i volti, chissà cosa mi tirerebbe fuori!!

Ma sognerei di lavorare anche con Spielberg. Oppure Valerio Binasco. O continuare con i registi con cui ho lavorato ultimamente, come Giuseppe Miale di Mauro, Mario Gelardi, Pierpaolo Sepe.

Quali sono le tue “impressioni teatrali”?

L’impressione è quella che il teatro, per quanto ci sia questo momento di difficoltà,  prima o poi, come si dice a Napoli, “se ne cadrà”.  Voglio avere l’impressione che i teatri esploderanno. Vedere le persone che rinunceranno a una carbonara o a un buon vino e torneranno a teatro a vivere emozioni, a sentire, sentirsi.

Io ho scelto di voler fare la giornalista per raccontare la verità e permettere agli altri di vedere ciò che io ho il privilegio di vedere e ricercare. Anche il teatro è un mezzo per rappresentare la verità…

Certo, lo svisceramento di alcune storie e sentimenti ti fanno mettere a fuoco quelli che tu vivi.

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