Tutti parlano di Piero!

Intervista a Piero di Blasio in occasione della prima italiana di Tutti parlano di Jamie in scena al Teatro Brancaccio di Roma fino al 3 aprile 2022
24 Marzo 2022

Intervista di Emiliano Metalli

Reduce dal successo de La piccola bottega degli orrori, Piero di Blasio debutta al Teatro Brancaccio con un nuovo show di cui cura adattamento e regia: Tutti parlano di Jamie. La storia di questa giovane drag-teen inizia nel 2011, quando la BBC realizza il documentario Jamie: Drag Queen at 16. Di lì, in poco tempo, Tom MacRae e Dan Gillespie Sells trasformano la vicenda in un musical che debutta a Sheffield nel 2017 e, con qualche modifica, all’Apollo Theatre di Londra. Ma l’arrivo sulle scene italiane è inoltre anticipato dal film diretto da Jonathan Butterell distribuito sulla piattaforma Prime Video. Tutti parlano di Jamie, dunque! E il Teatro Brancaccio non è stato da meno: protagonista è Giancarlo Commare, contornato da un cast tecnico e vocale di gran lusso fra cui spiccano le scene di Alessandro Chiti, le voci spettacolari di Barbara Cola, Lisa Angelillo e Benedetta Boschi e la talentuosa simpatia di Ludovica di Donato e Franco Mannella. A guidare lo show c’è l’inventiva di Piero di Blasio che abbiamo incontrato in occasione di una delle repliche. Professionista tanto serio nel lavoro, quanto simpatico e ironico sul fronte personale, ci ha raccontato un po’ di sé e dato qualche informazione in più su questa ultima avventura creativa.

Incominciamo da Piero. Film che salveresti dal diluvio?

L’attimo fuggente

Cocktail con cui ti ubriachi al primo sorso?

Spritz… vado lungo.

Pittore che detesti?

Non detesto… al massimo non li capisco.

La città che vorresti visitare ora?

Mi manca Londra. E voglio tornare a New York. Ma ora andrei a Miami.

Il primo amore non si scorda mai: ma è vero?

Scusami, ora non me lo ricordo.

Come tutto ebbe inizio. Perché hai scelto il teatro? Di solito tutti i genitori vorrebbero vedere i figli al Ministero…

I miei non hanno mai messo piede in un teatro, prima che li obbligassi io. Però non mi hanno mai obbligato a seguire un percorso e per questo li ringrazio. Il teatro io non l’ho scelto, mi ha scelto.

Qual è il ruolo del teatro oggi, in Italia?

Il Teatro dovrebbe essere salvifico. Dovrebbe aiutare le generazioni ad uscire da periodi bui. E dovrebbe far rilassare. In Italia non sempre succede e quando accade si grida al miracolo. Dovrebbe essere la normalità.

C’è differenza fra provincia e città?

Sì. Sempre. Anche fra teatri del nord e teatri del sud. E dopo 20 anni devo ancora capire dove sia “meglio”.

Resisteremo all’hometainment?

Ci stufiamo di tutto molto facilmente. Ci stuferemo anche di quello. E poi ci torneremo. L’uomo è ciclico nelle scelte e nei gusti per definizione.

La pandemia ha segnato indubbiamente le produzioni e gli attori. In che cosa questo Covid può essere uno spartiacque per la storia del teatro?

Il Teatro era agonizzante. Il Covid gli ha dato il colpo di grazia. Però dalle grandi depressioni ci sono sempre stati, storicamente, grandi riprese. Speriamo di non tradire la tradizione.

Come trovi, in generale, il pubblico che viene a teatro?

A volte lo trovo stanco. Altre annoiato. Sembra che non abbia stimoli. Dopotutto sono abituati a mangiare piatti già “masticati”. Trovarsi una bistecca (buona o cattiva che sia) un po’ li spaventa perché tocca masticare. Io confido nei giovani. Solo loro possono cambiare un pubblico ormai stanco.

Cosa manca al pubblico teatrale italiano, qual è il suo punto debole?

Manca la fiducia. Ma è colpa delle troppe fregature prese. Non è vero che il pubblico cerca il nome in cartellone. Il pubblico vuole storie belle in cui immedesimarsi o con cui esorcizzare miti e paure.

C’è differenza fra prima e ultima replica, nel pubblico intendo?

Alla prima vengono perché invitati o perché “devono”. All’ultima ci tornano perché vogliono.

E nello spettacolo?

Lo spettacolo deve crescere con gli attori. Quando il regista sparisce (perché deve sparire) lo spettacolo si dirige verso la sua destinazione naturale. Se il controllo del regista è netto, ma “aperto”, quello che si vedrà all’ultima è la perfetta base di partenza per il successivo anno di repliche.

La scuola potrebbe essere un partner ideale per il teatro o l’idea di un teatro-formazione è lontano dai tuoi schemi?

La scuola dovrebbe avere, dalla prima elementare, un corso obbligatorio di teatro. Non per avere attori e attrici in futuro, ma per formare esseri umani migliori.

Chi sono i critici: amici o nemici?

Dipende. Se scrivono bene sono amici, sennò… ahahah… a parte gli scherzi, i critici sono dei lavoratori, in quanto tali avranno sempre il mio rispetto. Poi non si può piacere a tutti. Fa parte del gioco.

Focalizziamoci sul tuo lavoro. Perché la regia?

Perché non mi volevano far fare il modello. (Scherzo… troppo, lo so!) Di base sono un maniaco del controllo. Curo le mie ossessioni obbligando gli altri a fare quello che dico. Da attore ho sempre avuto una visione più ampia del mio lavoro. La regia era la naturale conseguenza.

Come nascono le tue idee di regia?

Alcune arrivano all’improvviso, come coliche renali. Fanno male. So che starò male per delle scelte che andrò ad imporre. Altre sono pensate, studiate, ragionate. Di base sono un “problem solver”, quindi le mie idee di regia devono risolvere problemi, miei o di altri.

Ti occupi principalmente di musical, come è iniziata questa strada?

Io vengo dal canto. Poi mi sono innamorato del teatro. L’approdo al teatro musicale è stato quasi logico. Avendo fatto tante commedie e avendo un enorme rispetto della Recitazione, mi piace portare i due mondi sullo stesso piano nel Musical, a volte troppo bistrattato dal mondo della prosa (ma solo in Italia).

Cosa manca in Italia rispetto all’Inghilterra? O all’America? O alla Germania…

Mancano produttori coraggiosi che trattino la materia come se fosse un’impresa, un business e non un mecenatismo familiare. E poi mancano le idee. Siamo stati per anni i pionieri nel teatro. Adesso importiamo e basta. E lo dico contro i miei interessi.

Quale autore straniero vorresti portare in Italia?

Sondheim. Decisamente. Ma più che autori, io vorrei portare storie. Dobbiamo amare sempre la narrazione, non i narratori. Almeno non subito.

I ruoli nel musical (attore, regista, cantante, ballerino ecc.) sono utili o servono solo a limitare la creatività?

I primi ruoli nel musical sono i tecnici, poi tutti gli altri. La creatività si limita con la stupidità, non con i ruoli.

Gli interpreti italiani sono molto legati ai ruoli, pensi che possa cambiare questo atteggiamento?

Non sono gli interpreti ad essere legati ai ruoli, ma il pubblico! Il pubblico vuole vedere in quel ruolo sempre lo stesso interprete. Diventa un integralista dello spettacolo. Questo atteggiamento andrebbe cambiato.

Quali qualità cerchi nei tuoi cast?

Sembra assurdo, ma la prima cosa che guardo è l’educazione. Un attore supponente, spocchioso, arrogante e maleducato con me ha vita breve. Poi devono recitare e cantare, ma soprattutto devono avere qualcosa da raccontare. Mi piacciono i mondi che incontro nel mio cammino.

Per un titolo vincente al botteghino, cosa conta di più una buona idea o una buona produzione?

Vanno di pari passo. Devono. Dovrebbero.

Cosa o chi non metteresti mai in scena?

“Cosa” non saprei… forse un musical Disney… non so fare gli spettacoli perfetti. “Chi” se vuoi ti faccio nomi e cognomi! Ahahah…

Il titolo che sogni di allestire?

L’ho appena fatto. Jamie l’ho sognato per 4 anni.

Allora qualche domanda più specifica su questo progetto! Chi è Jamie?

Jamie è ognuno di noi. Ogni ragazzo bullizzato o non creduto. Ogni anima che sta cercando il suo posto nel mondo.

È stato difficile il lavoro di traduzione per farlo recepire in Italia?

Più che la traduzione è stato l’adattamento a portarmi via tempo. Ho dovuto lavorare sulla reale comprensione del mondo in cui viviamo. Non è Shakespeare. Non dovevo creare un linguaggio alto o “diverso”. Dovevo far sentire al pubblico come parla il mondo di oggi, non quello del ‘600. Come parlano i ragazzi. E io non sono più un ragazzo… da tempo, purtroppo.

Perché la scelta di questo musical rispetto ad altri ugualmente famosi e noti?

Perché di questo mi sono innamorato. Il colpo di fulmine è arrivato quando nel finale Jamie non va al ballo come una Drag Queen, ma come un bellissimo ragazzo con un vestito considerato da donna. Quel messaggio così semplice (non chiedere il permesso di essere te stesso) mi ha fatto riflettere. Anche l’Italia dovrebbe riflettere.

Si tratta di una scelta anche politica?

Ogni cosa che si sceglie nella vita è politica. Anche scegliere di non fare nulla. Io lavoro con il teatro privato, che di base detesta le etichette politiche. Questa scelta, però, è di amore, non di politica. L’amore per i giovani e per tutti quelli da “salvare”.

Il teatro è politica anche nel musical?

Il Teatro è tutto. Non imbrigliamolo in etichette.

Quale messaggio nascondi in questa tua regia, se c’è?

Ce ne sono diversi. C’è anche un piccolo messaggio di pace. Una piccola lampada con i colori dell’Ukraina.

Cosa ti aspetti, dopo Jamie?

Nulla. Non mi aspetto mai nulla dalle cose. Forse che le persone comincino davvero a credere negli altri.

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