Un’attività di teatro sociale che affronta i contesti del disagio attraverso le tecniche delle maschere, l’espressione corporea e lo straniamento

22 Aprile 2022

Francesco Gigliotti, regista e docente, racconta i risultati ottenuti con la metodologia dell’espressione corporea – appresa con allievi di J. L. Barrault, E. Decroux, J. Lecoq, J. Grotowski – nei contesti del teatro sociale. Esperto di maschere, movimenti coreografici, tecniche della Commedia dell’Arte di influenza napoletana, dal 2000 al 2010 è stato direttore artistico della Compagnia ‘Opera Prima’ di Latina che ha organizzato nel Comune di Sermoneta, il Cantiere di Teatro d’Arte, manifestazione di seminari e spettacoli dedicata al rapporto fra il teatro e le altre arti. Dal 2011 al 2015 collabora stabilmente con l’associazione ‘Aenigma Teatro’ di Urbino per progetti di teatro sociale con la casa Circondariale di Pesaro e il Centro Universitario Teatrale di Urbino.
L’ultimo progetto che lo ha visto impegnato come regista, I sopravvissuti – presentato a Roma nel novembre 2021 all’interno della Rassegna Nazionale di teatro in carcere ‘Destini incrociati’ – torna in scena il 26 aprile 2022 ad Urbino al Teatro Sanzio.

Quando e come è iniziata la tua esperienza professionale nel teatro sociale? Cosa ti ha spinto ad occuparti di teatro in carcere?

La mia esperienza è iniziata in modo casuale perché Vito Minoia, il direttore del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, conosceva il mio lavoro artistico e mi ha proposto di provare a lavorare nelle situazioni del disagio e della differenza teatrale, un tipo di teatro che conoscevo soltanto di nome e per aver visto qualcosa. Quando Vito Minoia mi ha proposto di lavorare in questo contesto ero molto perplesso, perché sapevo della lunga preparazione che è necessaria agli attori. Prima del lavoro nel sociale arrivavo a formalizzare uno spettacolo dopo almeno un anno di laboratorio.
L’invito di Minoia per me è stato fondamentale; se l’invito fosse venuto da qualcuno che non conosceva il mio lavoro probabilmente gli avrei detto subito di no. Se Vito Minoia mi invitava a lavorare in una dimensione diversa evidentemente riteneva che si potesse trovare una soluzione. Naturalmente gli ho chiesto quale potesse essere la soluzione e lui, giustamente, mi ha detto: “La soluzione devi trovarla tu”. È stata una grande sfida con me stesso. Nel frattempo si stava concludendo la mia lunga esperienza con la Compagnia ‘Opera Prima’ di Latina con cui avevo lavorato per dieci anni, che si era conclusa con lo spettacolo Il castello, ispirato all’omonimo romanzo di Kafka.
Ho iniziato a lavorare nel territorio tra Pesaro e Urbino con l’associazione ‘Aenigma Teatro’ che dedica particolare attenzione alle zone del disagio, dal teatro in carcere al teatro nelle scuole. Una delle caratteristiche che mi aveva molto interessato e colpito era il lavoro misto che si fa in fase creativa, ovvero il far lavorare assieme persone che vengono da situazioni e disagi diversi, questo per evitare, anche involontariamente, il rischio di ghettizzare il lavoro in un solo luogo e con persone della stessa provenienza. Naturalmente questo approccio è molto impegnativo e non è detto che funzioni. Tuttavia, per le poche esperienze che ho fatto in queste realtà, devo dire che funziona.

Il castello, ‘Opera Prima’, 2011

Nel 2014/15 hai condotto dei laboratori teatrali basati sulle tecniche delle maschere e della Commedia dell’Arte. Utilizzi questi strumenti teatrali e pedagogici anche nel teatro sociale? Se sì, come influiscono sulla formazione dei neo-attori nel contesto delle carceri?

L’utilizzo delle maschere non è tanto una specializzazione artistica o registica, è un preciso modo di vedere il teatro che considera importante il lavoro legato all’espressione corporea, alla fisicità e alla rifondazione dell’attore, per esempio nei confronti del problema della finzione. Le maschere con il loro straniamento mi aiutano a superare quella che è comunemente nota come ‘immedesimazione’. Il teatro fatto nelle situazioni della contemporaneità spesso confonde i piani di finzione e realtà, creando un corto circuito pericoloso nella nostra società, un problema di tutta la civiltà occidentale, la cosiddetta “società dello spettacolo”. Da sempre mi occupo di quel teatro che riesce a recuperare gli aspetti più dimenticati del teatro, quelli antropologici e sacri, in cui l’attore è visto come colui che agisce in una situazione di invenzione, di creatività, non di approccio a quanto può essere riconoscibile già immediatamente nella realtà. È un teatro un po’ metafisico ed è un lavoro di lunga formazione sulle persone.
Quando ho iniziato a lavorare nel contesto del carcere, ho pensato di azzerare completamente tutto quello che avevo imparato, tranne la parte poetica, ed è stato importante fare così. Non si potevano certo proporre ai detenuti lunghi esercizi preparatori, per cui è stato necessario un capovolgimento del metodo, senza però rinunciare a un’idea di teatro: lo straniamento. Alla fine ho scoperto che forse è più facile per un attore utilizzare lo straniamento e non l’immedesimazione, soprattutto se vive una condizione personale difficile come quella del disagio. La proiezione straniante è molto efficace e sono arrivato allo stesso risultato saltando la fase di lunga preparazione che invece era ‘obbligatoria’ con gli attori professionisti. Più che il risultato formale, è stato interessante il nuovo processo di lavoro che si è aperto. Ho notato che il lavoro sullo straniamento e la ricerca di qualcosa di non definito, come un personaggio o un’identità precisa, metteva le persone in una condizione di curiosità nei confronti di se stesse e di quello che potevano essere. In un certo tipo di teatro, quando si devono rappresentare dei personaggi, si possiede una serie di informazioni. In questo tipo di teatro, invece, le informazioni sono praticamente zero, si sa soltanto che ci sono degli stati d’animo e delle situazioni da reinventare, ricreare, rifondare e tirare fuori dagli attori, partendo dall’abissale distanza rispetto a quello che sono come persone. Anche se si raccontano delle storie, i personaggi non sono identificabili psicologicamente o socialmente. Per questo nel mio teatro uso poco il parlato, se non in rare occasioni essenziali. Molto è affidato al significato simbolico del gesto. Avere la possibilità di ricreare una situazione con la comunicazione elementare dei corpi e dei suoni, con un’attrezzatura sensoriale arcaica, è una grande emozione.
Nell’idea di teatro fisico, dell’espressione corporea, del mimo lirico – tutte eredità del ‘900 – è fondamentale arrivare alla definizione del corpo dell’attore neutro, sia nel sesso che nelle intenzioni.
Teatro fisico vuol dire anche che l’attore comincia a prendere le differenze con la realtà, quando lavora sulla neutralità dell’energia per esempio. La neutralità dell’energia è una condizione che nessuno vive nel mondo quotidiano. Riuscire ad esercitarsi in questa dimensione significa porre una distanza dalla riconoscibilità del reale, ed è già lavoro. Questi attori, pur non avendo fatto i lunghi esercizi che ero abituato a fare con i professionisti, istintivamente sono arrivati a questa condizione ed è uno dei motivi per cui, quando nello spettacolo fanno delle coreografie di movimento che sembrano vicine alla danza, in realtà stanno utilizzando l’elemento di neutralità della presenza del corpo che nel quotidiano nessuno ha. Nel quotidiano vediamo costantemente una varietà di caratteri, di emozioni, di espressioni, qualcosa che è troppo spinto o è troppo poco, non vediamo una situazione di neutralità. Chiaramente, non ho potuto eliminare tutti gli approcci, ma li ho essenzializzati cucendoli un po’ a misura delle persone. Athif, per esempio, ha un tipo di concentrazione che non dura più di quattro secondi, allora dopo quattro secondi riposava, poi piano piano sono diventati otto, poi sedici.
Alla base del teatro dell’espressione corporea, del teatro con la maschera e dello straniamento c’è per l’attore la necessità di imparare a vivere nella dimensione dell’energia neutra, una condizione che si può acquisire solo conoscendo la propria respirazione e il modo in cui il respiro viene modificato. Questa è la grande differenza fra l’arte filmica e quella teatrale. In teatro il pubblico respira esattamente come l’attore vuole che respiri. La condizione del respiro è una questione di grammatica ed è più importante anche della poetica.
In un laboratorio per professionisti si hanno a disposizione anni per lavorare su questi elementi. Questa è stata la sfida per me: imparare a trovare delle soluzioni che non disperdano la ricerca essenziale sull’energia neutra. Devo dire che questo è riuscito perché ognuno degli attori, a modo proprio, ha avuto la capacità di uscire dal corpo fisico di quello che era come persona. Quando, dopo il prologo, gli attori cominciano a dar vita allo spettacolo, si vede che lavorano con corpi ‘altri’ che non sono i corpi che possiedono come persone ed entrano in una dimensione in cui si comincia a stabilire una differenza con la realtà. Come diceva Gordon Craig, “il teatro deve avere la capacità di evocare cose che non sono di questo mondo”.

I sopravvissuti è ispirato all’opera di Primo Levi. Attraverso quale processo di lavoro nasce e si sviluppa la drammaturgia dello spettacolo? 

Nel 2018-19, con lo spettacolo Rugby, corpo a corpo. Ricordi e ritorni tra giochi e sogni di una vita abbiamo lavorato sul gioco del rugby, considerandolo come testo di partenza, utilizzando fonti storiche e antropologiche perché, come è noto, il rugby è uno degli sport più antichi e tuttora quello meno contaminato dalle vicende commerciali. Il fatto che due squadre si affrontano, nel tentativo di vincere una sull’altra e che poi, indipendentemente da chi vince, c’è il momento di solidarietà – si va a cena tutti insieme per esempio – rilancia un aspetto importante dello sport che è andato perduto: la solidarietà di una comunità.
I sopravvissuti è stato realizzato con i detenuti della Casa Circondariale di Pesaro. Le prove si sono svolte all’interno del carcere di Pesaro con l’ingresso autorizzato degli studenti che avevano già fatto con noi dei laboratori teatrali. Il titolo proviene dal capitolo I sommersi e salvati di Se questo è un uomo di Primo Levi. Tutto parte da un’idea di testo di base. Tecnicamente ho costruito lo spettacolo come era stato per il rugby. Anche se cambia totalmente il fondamento del lavoro, l’approccio rimane lo stesso. Nel caso del rugby l’idea suggeriva un percorso legato a quello sport, nel caso dei Sopravvissuti bisognava partire dall’approccio di Levi verso le esperienze descritte.
Riguardo ai suoi racconti, in particolare Se questo è un uomo, ci siamo interrogati su una scelta essenziale che Levi fa prima di narrare le storie, ad esempio in Se questo è un uomo è evidente la posizione, non dico straniata rispetto a quello che racconta, ma un po’ ironica nei confronti della situazione, perché non si vuole rendere drammatico quello che è già altamente drammatico.
Quando un testo che nasce come romanzo deve diventare materiale di scena non si tratta solo di raccontare quella storia, quel racconto, ma si tratta di partire dalla dimensione generale in cui tutto si crea per poi capire come si mette ‘in spazio’, cioè quando arriva l’elemento della fisicità e come arriva. Tutto questo è stato inventato lavorando con gli studenti. Poiché il laboratorio è stato fatto in periodo di pandemia c’è soltanto uno studente, un musicista molto giovane, Francesco Scaramuzzino, che ha lavorato con i cinque detenuti del carcere.
Il progetto prevede una seconda parte dei Sopravvissuti che si svolgerà nella prossima primavera con gli studenti dell’Università di Urbino.

Rugby, corpo a corpo. Ricordi e ritorni tra giochi e sogni di una vita, 2018-19

In che modo la letteratura di Primo Levi si è trasformata in uno spettacolo teatrale?

Più che raccontare una storia specifica abbiamo cercato di capire quali possono essere i denominatori comuni della poetica di Levi, la posizione straniata che ha in tutta la sua scrittura, e offrirla agli attori come materiale su cui iniziare a lavorare. Lo spettacolo è fondato sull’attesa di storie che non vengono mai raccontate: i protagonisti ogni volta che provano a raccontare le storie non riescono a raccontarle, perché litigano tra di loro, perché non le ricordano o perché non vogliono raccontarle. Questo è quello che rimane come un’eco di ciò che Primo Levi racconta nei suoi romanzi: non c’è mai la definizione precisa di qualcosa che è andata in un certo modo, c’è una varietà di situazioni e di elementi che danno una visione, ma alla fine è il lettore a fare la sua considerazione, che non è quella dell’autore. Questo è molto teatrale, perché all’inizio non si capisce cosa sta succedendo. C’è un prologo in cui gli attori vanno in mezzo al pubblico cercando di vendere le loro storie registrate su delle chiavette usb, dicendo: “Scusa, perché sei venuto a teatro? Se mi dai dei soldi, compri questa chiavetta e fai prima a vedere cosa c’è dentro”. È una posizione ironica nei confronti della crisi che vive il teatro contemporaneo, dove ormai tutto è soppiantato dalle immagini e dalla tecnologia, dove nessuno ha la pazienza, e neppure la curiosità, di vedere cosa fa un corpo fisico. Dopo questo prologo, qualcuno convince gli altri che forse è il caso di non vendere le storie, perché non ci guadagnano nulla – due o tre o euro è il massimo che viene offerto – allora provano a raccontarle. Lì parte lo spettacolo. Questo prologo, come abbiamo visto a Roma, ha funzionato moltissimo: il pubblico pensava che davvero gli attori non volessero fare lo spettacolo e che tutto finisse lì. Lo spettacolo poi va avanti, ci sono degli elementi che rimandano fortemente a quella che dev’essere stata un’esperienza difficile per ognuno di loro, ma rimane ambiguo se i ‘sopravvissuti’ fanno parte della stessa storia oppure ognuno ha una storia diversa. L’elemento di contrappunto a questi racconti che non vengono raccontati è il musicista, Angelo – un angelo un po’ alla Zavattini, nel senso che non ha la bravura degli angeli, fatica anche a stare in piedi e non riesce a volare bene. Angelo compare ogni volta che loro, per una serie di stress, si addormentano, cerca di ascoltarli, ma soltanto dopo diversi tentativi comincia a capire quali sono le storie, le intuisce ma non dice nulla. Per esempio, un suo modo di intuizione è quello tutto metafisico per cui ruba dei capelli agli altri attori, li guarda bene, poi li mette da parte come fili argentati. Soltanto alla fine, quando i protagonisti si addormentano per l’ultima volta, Angelo tira fuori i fili, apre la custodia che sta sempre sulle sue spalle, li mette sulla chitarra e, mentre gli altri piano piano iniziano a riprendersi, si avvia a suonare uno dei brani più poetici e amati nel mondo della chitarra classica, Recuerdos de la Alhambra di Francisco Tárrega. Lì si capisce che l’unico ad aver raccontato la storia è stato Angelo, perché Recuerdos de la Alhambra è qualcosa che non si può raccontare, se non con la musica. Gli altri nel frattempo si tranquillizzano, si danno dei buffetti reciprocamente dicendo che non hanno raccontato la storia ma sicuramente il pubblico l’avrà capita. Mentre fanno questo si svestono dei panni che avevano durante lo spettacolo e li lasciano lì.
Quando metti in scena uno spettacolo se riesci a dargli una buona dose di mistero, allora probabilmente, hai fatto un buon lavoro. Nei Sopravvissuti non si capisce la funzione di queste figure che continuano a svilupparsi, se non alla fine del lavoro. Questo riproduce anche una loro condizione personale, perché all’inizio non avevano nessuna voglia di fare teatro. Si capisce anche che non hanno perso il senso dell’umorismo, perché vogliono vendere le loro storie.

I sopravvissuti, 2021-22

Chi sono i neo attori presenti nello spettacolo I sopravvissuti? Da quanto tempo hanno iniziato un percorso di formazione teatrale? 

Ogni volta che apriamo un progetto nella Casa Circondariale ci troviamo di fronte persone nuove. I nostri progetti devono misurarsi con una condizione di tempo limitato perché Pesaro non è un carcere di massima sicurezza ma un carcere dove si scontano pene lievi. Quindi, le persone dopo tre, quattro anni vengono trasferite o finiscono la pena. Tuttavia, mi sono occupato di progetti di lungo periodo che quando si prova e si va in scena possono arrivare ad un risultato formale da presentare al pubblico. Questo è importante perché si tratta di una situazione completamente diversa da quella, per esempio del carcere di Volterra, dove le persone si trovano per lunghe pene o a vita. Alla fine sono rimasti cinque attori che hanno avuto dal magistrato il permesso di lasciare il carcere. Questi cinque attori sono tutti non italiani, tre albanesi e due marocchini, e hanno iniziato a fare teatro con questo progetto.
Può succedere che qualcuno poi manifesta un interesse per il teatro, per esempio nel corso di questo progetto due di loro hanno chiesto dei permessi particolari per andare a vedere degli spettacoli teatrali.
Il primo approccio è sempre ricreativo, non potrebbe essere diversamente considerando le condizioni di disagio in cui vivono. Poi però, questo dipende anche da come si riesce ad incuriosirli, cominciano a trasformare e ad elaborare una nuova conoscenza che si evolve dall’essere un gioco.

I sopravvissuti è stato presentato a Roma nel novembre 2021, all’interno della Rassegna Nazionale di teatro in carcere ‘Destini incrociati’, e tornerà in scena il 26 aprile ad Urbino al Teatro Sanzio. In questo tempo che evoluzione ha subito lo spettacolo nel contenuto e nella forma?

La versione di I sopravvissuti che presentiamo ad Urbino è il frutto di un arricchimento del lavoro rispetto alla versione presentata a Roma, perché gli attori hanno dato maggiore disponibilità. Quindi, dalla forma di studio con cui l’abbiamo presentato a Roma è diventato, se non proprio uno spettacolo, certamente uno studio approfondito.
Roma ha rappresentato un momento di verifica di tante cose. Si racconta che, finito lo spettacolo, quando come sempre c’è il rientro nei furgoni, il pubblico – formato in gran parte di giovani preparati dall’università Roma Tre – spontaneamente è andato ad applaudire gli attori fuori. È stata una sorpresa per tutti e quando ci siamo ritrovati a Pesaro mi sono reso conto che qualcosa in loro era profondamente cambiato rispetto all’approccio al lavoro. Era finita quella fase ludica e ricreativa, infatti lì è nata la richiesta di poter vedere degli spettacoli fuori dal carcere. È scattato qualcosa e naturalmente, quando questo succede, siamo tutti molto contenti.
Inoltre, il pubblico di Roma ha osservato che in quello che abbiamo presentato come studio c’era un progetto forte che non rimandava mai al disagio ma puntava a creare una storia completamente diversa. Non c’è bisogno di avere delle etichette. Se avessimo portato lo spettacolo in un qualsiasi altro luogo, sarebbe stato del tutto irrilevante che gli attori provenissero dal carcere o che Angelo fosse un musicista virtuoso. Quello che conta alla fine è come arriva il messaggio artistico e poetico indipendentemente da chi lo fa. Apparentemente I sopravvissuti ha a che fare col disagio ma ne prende in realtà molto le distanze. Quando si lavora nel sociale o nel disagio, purtroppo, il rischio è quello di parlare indirettamente o direttamente del disagio nella realtà. Nei progetti che ci sforziamo di realizzare, come anche nel caso del rugby, cerchiamo di evitare questo problema. Con Primo Levi non era facile perché lì si parla di esperienze atroci.
In questo tempo ho avuto la possibilità di mettere più a fuoco il lavoro. Nella versione di Urbino alcune cose sono state puntualizzate meglio, per cui lo spettacolo è cresciuto anche nei tempi: durerà quaranta minuti a differenza dei trenta di prima che erano molto essenziali. Questo per lo spettacolo è il punto massimo di arrivo perché nella situazione generale di Pesaro il lavoro è a termine. Potrebbe capitare a breve qualche altra replica, ma sempre nel contesto delle Marche.

I sopravvissuti, 2021-22

Che rapporto dovrebbe crearsi secondo te fra teatro in carcere e pubblico? Hai delle aspettative e degli obiettivi riguardo alla risposta del pubblico in relazione al tuo lavoro? Quanto è importante per te il pubblico?

Una risposta potrebbe essere il risultato dei I sopravvissuti a Roma, il fatto che al pubblico lo spettacolo non sia sembrato legato al mondo della detenzione e che si leggesse un progetto diverso da quello del disagio. Lo spettacolo è arrivato al pubblico in maniera singolare e diversa rispetto a quella che ci si aspettava. Volenti o nolenti, la condizione di difficoltà e di disagio rimane sotto traccia nell’interpretazione degli attori detenuti. La cosa migliore sarebbe presentarli come degli artisti che fanno un’esperienza davvero ‘altra’. Poi, se vorranno proseguire, cercheranno una loro strada.
Quello di Roma è un pubblico che in qualche modo viene preparato. È giusto dare delle informazioni di base su quello che si va a vedere. Alla fine però conta il risultato: i giovani studenti lo hanno applaudito sinceramente. Continuo a verificare con gli anni la validità della scelta di approfondire un teatro apparentemente difficile come questo, che non si lega a vicende commerciali e del resto neanche potrebbe. Quando parliamo di maschere parliamo di un teatro corporeo. Il corpo dell’attore rimane una delle questioni centrali, così come centrale è la scomparsa che rischia il corpo fisico in una società come la nostra. Il fatto che andare a vedere qualcosa dal vivo raramente suscita qualche emozione è paradossale, perché prima dell’avvento della tecnologia si andava a teatro proprio per avere una restituzione fisica ed emotiva del corpo. Questa è la premessa di tutto il mio lavoro e della mia ricerca: distinguere il principio di realtà dalla finzione creativa, lì dove per finzione si intende la ricerca e l’invenzione poetica.

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