Salvo Lombardo presenta “Ctonia, esplorazione performativa sullo spazio-tempo

18 Dicembre 2022

«La funzione dell’artista in una società disturbata è sviluppare consapevolezza dell’universo, fare le giuste domande e elevare la mente» (Marina Abramović)

È ormai terminato “Interazioni Festival”, un evento multidisciplinare di arti e culture contemporanee, che in vari spazi di Roma, dal Goethe Institut  alla Villetta Social Lab, ha dimostrato l’ancora viva possibilità delle arti performative di essere strumento d’indagine esistenziale e filosofica; ma la sua voce ancora non si è spenta, riecheggia per le strade romane, tra Tor Pignattara, Largo Venue e Centrale Preneste, dal 9 al 20 dicembre 2022, grazie alla sua vibrante ramificazione “Ctonia”,  un susseguirsi di workshops, istallazioni e performances, aperta dai pluripremiati Muta Imago, spettacolarmente nutrita dalla partecipazione di vari nomi dallo spirito anticonvenzionale, così com’è il festival stesso, quali Alessandro Sciarroni, Biagio Caravano, Cristina Kristal Rizzo, Irene Russolillo e Philippe Barbut.

Un anti-non-luogo, un microcosmo reale, un rifugio dove la performing art torna a essere rivoluzione all’Abramović, accorciando le distanze tra pubblico e artista, presentandosi ‘arte’ a tutti gli effetti, collettività e partecipazione, evento corporeo e non solo uno statico spettacolo commercializzato.

Alle esibizioni, difatti, non si assiste, ma si partecipa, facendo esperienza d’esplorazione dell’ambiente che ci circonda e del tempo in cui siamo immersi. Come? Ce lo ha spiegato Salvo Lombardo, direttore artistico e ‘autore’ di “Breathing Room”, una poetica performance del progetto per scoprire o riscoprire la naturale e culturale essenza e funzionalità del ‘respiro’.

Qual è il rapporto tra “Ctonia” e “Interazioni Festival”?

Ctonia nasce come progetto speciale dentro “Interazioni Festival”. L’edizione del 2022 si è svolta in vari spazi della città tra settembre- ottobre, e ora Ctonia è la sua prosecuzione. Non c’è una distanza di sguardo tra le due programmazioni, ma si riprendono alcuni discorsi, si ramificano e si completano.

A che genere di arte e spettacolo guarda o si ribella?

“Ctonia” come “Interazioni festival” si configura come una programmazione dal carattere interdisciplinare, guarda alle performing arts e alle arti visive. Cerca di combinare formati e linguaggi che si muovono tra teatro, danza, performance, istallazione, video e momenti di approfondimento culturale, nonché workshop e dinamiche di partecipazione: questi sono gli ambiti espressivi e metodologici che la nostra progettualità incontra. “Ctonia” in particolare si configura più nello specifico come una programmazione che ha la vocazione di creare degli ambienti relazionali in cui attraverso il lavoro degli artisti e artiste coinvolte il pubblico possa incontrare, vivere e toccare una processualità nel suo svolgersi, per cui molti dei lavori hanno questa natura di permanenza, abbracciano il formato duracional, sono un’occasione di interrogare la performance stessa, di interrogare il corpo dal punto di vista della temporalità, su come fruiamo il tempo in base alla sua durata.

Che tipo e quanta partecipazione avete riscontrato?

C’è stata una bella partecipazione, una partecipazione che probabilmente ci restituisce un dato sulla città, che è quello di un certo desiderio di incontrare i linguaggi del contemporaneo, in generale; nello specifico, forse, un certo desiderio di abitare insieme agli artisti degli spazi attraverso una durata che non è convenzionale, non è quella dello spettacolo canonico. Inoltre la nostra programmazione “Ctonia” ha una serie di workshop, di momenti a cavallo tra l’approfondimento pratico-teorico che hanno avuto una risposta molto felice.

In questo tipologia di performance il pubblico che ruolo ha, quale rapporto si viene a creare tra voi?

Il rapporto cambia da un lavoro a l’altro; però, essenzialmente, l’idea è che questi lavori programmati dentro “Ctonia” possano dare al pubblico la possibilità di ‘stare’, di stare in un tempo lungo: alcuni hanno una durata che si protrae nel tempo, come, per esempio “Piscina Mirabilis Sound”, del gruppo MK, che ha avuto la caratteristica di ricreare un ambiente in cui il pubblico poteva entrare e uscire nell’arco di tre ore; la stessa cosa ha fatto Cristina Kristal Rizzo in “Pasodoble”, un’azione di durata di due ore, in cui il pubblico poteva decidere come e per quanto fruire del tempo di questo lavoro; ugualmente accade nella performance di Bellantoni, un’azione di riscrittura dello spazio che ha un margine di partecipazione, ovvero il pubblico può partecipare all’azione e aiutare l’artista in questo processo di riscrittura, però può farlo scegliendo come muoversi e dove stare in un arco temporale piuttosto lungo di diverse ore. Con “Colonia” dei Muta Imago il discorso sul tempo è stato declinato rispetto alla relazione con due spettatori per volta, che potevano entrare e fare esperienza di una navicella, la loro istallazione, per la durata di mezz’ora.

Il susseguirsi delle performances segue un piano coerente e studiato precedentemente?

Nell’insieme gli eventi creano un macrodiscorso, una macrodrammaturgia, che è poi la programmazione di per sé; il discorso è un discorso complessivo, non va analizzato solo sul singolo evento. Mi piace pensare che lo spettatore possa fruire di una singola esperienza, ma anche fare pratica dell’intera programmazione, di una certa modalità di performance. Per me il filo conduttore di questi lavori è anche dato dal rapporto che ognuno di questi artisti e artiste hanno con un certo sguardo radicale sulle cose, ogni lavoro pone una domanda sulla radice, in questo caso è una radicalità che riflette sulla nozione di evento: cos’è un evento, come ne fruiamo e che spazio si possa trovare dentro un evento performativo.

La vostra appare come una ricerca di sensazioni arcaiche, ma questo carattere sembra non voler essere benefico solo socio-collettivamente, ma anche privatamente a livello psico-fisico, è così?

Non uso lo strumento della psicanalisi, di un’interpretazione arcaica, per leggere questi lavori, parlo piuttosto di una stretta relazione tra la dimensione intima del performer e l’ambiente circostante, dove per ambiente si possono intendere molte cose, lo spazio fisico come lo spazio sociale, e quindi questa relazione tra un interno e un esterno è data proprio dalla prossimità; per questo sono eventi che non hanno una dinamica spettacolare canonica, sono eventi che mettono lo spettatore al centro dell’esperienza, alla pari con l’artista.

Nel tuo “Breathing Room”, il respiro è inteso come ‘atto poetico’, come hai realizzato che il respiro possa essere un atto artistico, in che senso lo è?

Il respiro può avere diverse declinazioni, è una pratica di base, è qualcosa che decliniamo guardandolo come semplice pratica organica, come semplice atto naturale esistenziale, ma anche come discorso culturale; di per sé conduce e si porta dietro una serie di domande di natura filosofica, implicitamente anche di natura politica. Il mio “Breathing Room” è una performance, ma prevalentemente è un ambiente dove il pubblico può stare e attivare il respiro: il primo livello è quello di concedersi uno spazio-rifugio in cui possano fare pratica del loro respiro; a partire da questo livello base quello che mi interessa costruire è un’azione che ha una natura poetica in senso letterale, che si riferisce a un determinato tipo di fare, e questo determinato tipo di fare è l’atto performativo in sé.

Mentre la performance è in atto, anche tu ne benefici?

Io non la eseguo, ogni volta invito un artista diverso: nella prima replica c’è Irene Russolillo e nella seconda Philipe Barbut. Questa scelta è data dal fatto che ogni replica è un unicum, non ci saranno repliche future con il performer che invito, non facciamo prove di costruzione del lavoro, ma quello che accade avviene in tempo reale attraverso un passaggio di istruzioni che io faccio loro proprio in quel momento. Questo si realizza in un ambiente in cui, non io, non loro, ma tutti i partecipanti attivano un certo modo di stare che si attiva con il respiro.

Come hai scelto proprio loro due, Irene Russolillo e Philipe Barbut?

Sono due artisti che stimo e che fanno parte di una tessitura di dialoghi che è stato molto interessante approfondire. Mi piace utilizzare questo dispositivo per proseguire un dialogo artistico con loro, perché ritengo che la loro sensibilità come performer bene risponde a quest’invito peculiare, un invito a buttarsi in un’esperienza senza rete di protezione, trattandosi di una performance per la quale vengono istruiti in tempo reale.

“Save the Last Dance for Me” di Alessandro Sciarroni chiude l’evento, con che tipo di messaggio ci lasciate?

Alessandro è un pezzo significativo dell’intera programmazione. La programmazione, secondo me, va vista nel suo insieme. Quello che mi affascina dei suoi lavori e di questo in particolare è che Sciarroni è in grado di declinare dal suo punto di vista, anche lui, un discorso sulla drammaturgia del tempo. Chiudere con lui significa chiudere con un evento performativo riconoscibile come tale, perché si riferisce a una modalità scenica che amo molto, e, allo stesso tempo, rispetto alla programmazione generale, porta degli elementi aggiuntivi su questo discorso sul tempo e sul modo di abitare la performance, scardinando le logiche abituali.

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