È un gioco al massacro, un ring a colpi di parole che si susseguono, feriscono, dilaniano, si spingono, strattonano, colpiscono, affondano, “Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee con la regia di Antonio Latella, in scena al Teatro Argentina di Roma e in tournée in tutta Italia.
Il salotto di una casa borghese, tra poltrone, gatti, un pianoforte, credenze piene di superalcolici, è la scena dove si compie questa lotta senza esclusioni di colpi tra i coniugi Martha e George, insegnanti universitari di mezza età, i quali si riversano contro e addosso debolezze, frustrazioni, incomprensioni, rancori, davanti ad una coppia di amici ospiti per la serata, Nick, giovane collega di lui, e la moglie Honey, i quali si ritrovano inconsapevolmente anch’essi vittime e protagonisti di questa battaglia psicologica all’ultimo sangue, al cardiopalma.
Il pianoforte al centro della stanza e ,dunque, della scena , è la corda intorno a cui si scontrano e incontrano le quattro umanità, cadenzate dalle note di un motivetto “chi ha paura di Virginia woolf?” Che si ripete nel corso della pièce.
La canzoncina “Who’s Afraid of the big bad Wolf?” viene, infatti, modificata da Albee chiamando in causa la celebre scrittrice che tramandò l’ideale di uccidere la propria madre e che qui sta a sottintendere quanto questa coppia di invitati non siano altro che le vittime sacrificali di un amore malato e morente.
Marta e George sono una coppia ormai sfaldata, logorata che cerca però in tutti i modi di rinvigorire, riaccendere e salvare il proprio sentimento, anche a costo di fare male, ferire, farneticare, uccidere altre persone.
Tra fiumi di alcool e ironia pungente, i due cercano di mistificare la realtà, inventare, lasciare spazio alla menzogna e all’illusione per provare a vincere debolezze, paure, depressioni. Si crea così un ulteriore ring tra ciò che è e ciò che appare, tra verità e illusione, in cui le uniche armi usate sono proprio le parole.
Latella porta in scena un testo in cui centrale è appunto il verbo, tagliente, ripetuto, minuzioso, con il suo ritmo cadenzato, ossessivo, ipnotico, che rapisce lo spettatore e lo conduce in un reticolo emozionale spossante fino all’ultimo respiro, creando visioni, suggestioni, coadiuvato ed esaltato da una regia che lo mette in evidenza, lo esalta, lo sublima, in un continuum che non risulta mai pesante, dispersivo, grazie sicuramente all’interpretazione dell’intero cast composto da Vinicio Marchioni, Sonia Bergamasco, Ludovico Fededegni, Paola Giannini.
Lo spettacolo risulta, a tal proposito, una vera e propria lezione di recitazione, un esempio di come l’attore può diventare un mago della parola, mettendola in primo piano senza mai scomparire.
Gli interpreti masticano parole una dietro l’altra, sottolineano punti, virgole, esclamazioni, colpendo, difendendosi, attaccando, tra virtuosismi, giocano fino a farsi male, fino a uccidersi, stordirsi, rivelando la crisi, l’insoddisfazione della classe borghese.
Tutti e quattro si fanno maschere di convenzioni sociali e falsità dell’America degli anni sessanta, dominano la scena, sono prestigiatori di parole e stati d’animo.
Si muovono come pedine di un pensiero distruttivo, si arrampicano sulle parole, le traducono in gesti, giochi, colpiscono, divertono, sorprendono, indignano.
La regia di Antonio Latella punta tutto su di loro, sul lessico e la psicologia dei personaggi, è essenziale, asciutta e arricchita da elementi che rendono concreto l’astratto del detto: il figlio evocato, inventato, e ucciso nell’immagine della carrozzina, e nella maschera del coniglio, simbolo di fertilità e rinascita.
Lo spettacolo, reso eterno anche dal film del 1966 di Mike Nichols con Elisabeth Taylor e Richard Burton, racconta la storia di una doppia coppia, di una duplice sconfitta. Sono tutti vittime, tutti carnefici, e se i due ospiti possono andarsene chiudendo la porta dietro le loro spalle, a Marta e George non resta che sperare che domani potrà andrà meglio. Magari continuando a giocare, inventare, dimenticare, intonare il motivetto chi ha paura ha paura di Virginia Woolf per esorcizzare la loro vera paura: la paura della verità.