Gli ultimi giorni di Agatha Von Braun, l’umoristica paura della morte

15 Febbraio 2023

Rinnegare, l’uomo non può che rinnegare la propria mortalità davanti alla certezza della morte. Non ha mezzi, non ha armi per contrastare il tuffo nell’ignoto dopo aver esalato l’ultimo respiro, se non rifugiarsi nella fantasia e far finta di avere vita eterna; sospirando, aspirando al controllo totale sul tempo che scorre inesorabile.

È quello che succede ad Agatha Von Braun, protagonista del dramma comico Gli ultimi giorni di Agatha Von Braun, andato in scena all’ Altrove Teatro Studio, con Francesca Lo Bue e Joaquin Nicolas Cozzetti, ideatori, registi e interpreti.

In un microcosmo atemporale, tra le pareti della sua casa scenograficamente adornate con mobili in legno decorati con delicate corone di fiori, vintage dal gusto romantico, la contessa Agatha, come una principessa rinascimentale chiusa secolarmente in una gabbia d’oro, passa le sue giornate con Arcibaldo, maggiordomo muto che, distinto da una brillante mimesis corporea in salsa chapliniana, non ha bisogno della parola per prendersi cura, come un magico ‘spirito della casa’, della sua padrona e dilettare lo spettatore, e con la pianta Petunia, simbolo di quella natura indifferente che silenziosamente assiste alla gioia, alla malinconia e alla morte di chi si occupa di lei. Agatha le parla, le rivela il suo desiderio di viaggiare, sogna Venezia, ma ad un tratto si accorge che poche sono le pagine che rimangono al suo calendario; i giorni, la sua vita, stanno terminando, le foglie dall’alto cadono ininterrottamente e, come la loro discesa, ininterrottamente le ore passano e non c’è niente che la contessa possa fare per avere più tempo.

La protagonista entra in uno stato di lucida follia, attraversando le tipiche fasi di uno shock post-traumatico: disperazione, negazione e accettazione.

Quel calendario quasi terminato è per lei uno squarcio pirandelliano, è ciò che le fa realizzare di essere, inevitabilmente, ‘umana’; ma Agatha è in primis una contessa e con la solita boria borghese non può accettare di essere mortale come chiunque altro sul pianeta; quel pianeta umano da cui lei sembra essere evasa per rifugiarsi nel suo mondo sospeso tra illusione e realtà.

Prova a controllarle queste ultime miglia verso il traguardo finale, con trucchi ed escamotages, ma non le resta che accettare la fine e pregare Arcibaldo di non scordarsi di lei.

Quella che Francesca Lo Bue e Joaquin Nicolas Cozzetti hanno realizzato, giocando con abiti, musiche e luci, è una messinscena, amalgama di prosa, mimo, danza e acrobatica teatrale, strutturalmente simbiotica alle atmosfere da favola della storia; lo spettatore entra, con la mente e con il corpo, in un sogno, nel sogno della contessa, che è anche quello di tutti, la sospensione della materia e la tensione all’eternità; una tensione che diventa nemica se evoluta in ossessione e non in una parte del sé da incanalare e creativamente sfruttare.

Nonostante la drammaticità della vicenda, protagonista principale è l’elemento comico, catarsi nella sceneggiatura, testo di Annalisa Ambrosio: si ride e si piange, anzi, si piange e poi si ride; lo spettacolo è grottesco, nel puro senso del termine, la risata accompagna Agatha fino ai suoi ultimi respiri, ma è una risata amara, come quella che accompagna Stracci, personaggio comico pasoliniano di Ricotta, fino alla sua morte, e con ideologica certezza, usando la terminologia di Stefano Casi nell’analizzare il teatro di Pasolini, possiamo definire tale allestimento ‘tragedia umoristica’, il cui umorismo, in chiave freudiana-pasoliniana, è fuga dalla realtà per la borghesia che non accetta la sua condizione, evasione, riduttività e difesa: è questo l’umorismo della benestante contessa Agatha, fuga da se stessa, da il tempo mortale in cui essere ‘Agatha’ non è un giudizio di valore, ma un semplice tassello del mosaico terrestre.

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