“Da Lontano-Chiusa sul rimpianto” con una finestra spalancata sul futuro 

10 Marzo 2023

Ogni giorno, quando apriamo gli occhi, camminiamo, semplicemente viviamo, portiamo sulle spalle il nostro passato, leggero, pesante, esiguo o ingombrante che sia, con il suo carico di gioie, dolori, ferite, mancanze, rimorsi, rimpianti, echi di voci, bagliori di volti, sorrisi e lacrime. Non si può prescindere dal passato, siamo anche ciò che siamo stati e abbiamo vissuto, ma quell’ “era” può diventare un altro sarà. Per farlo, però, bisogna aprire i cassetti della memoria, guardare in faccia il tempo andato e farci pace, una volta per tutte.

È quello che con maestria, sensibilità e garbo toccante ci suggerisce la preziosa penna di Lucia Calamaro nel suo nuovo spettacolo “Da Lontano – Chiusa sul rimpianto”, in cui una figlia, ormai donna, matura e consapevole, per andare avanti, decide di ritornare indietro e affrontare quei rimpianti, qui sensi di colpa nei confronti di una madre fragile, triste, che non ha saputo capire e in cuor suo salvare.

Isa, ora diventata una terapeuta, accorre in aiuto della madre debole e in difficoltà. Si ferma, si guarda dentro, indietro, e in una sorta di limbo, di aldilà evanescente, le due si rincontrano. Su una scena vuota, una stanza bianca, la candida sala di una casa, la casa materna, si muove la figlia, mentre dietro una porta, in una immaginaria camera da letto, sua madre ,di cui inizialmente sentiamo solo la voce, sembra costruire o aggiustare qualcosa. 

Inizia una seduta psicanalitica, o meglio di auto-analisi, un dialogo-monologo intimo, semplice, sincero, fatto di gesti familiari, quotidiani, intimi, di affetto, tenerezza: la figlia ora adulta in questo dialogo accetta se stessa, i suoi rimpianti, il suo passato che martella, ronza fastidioso come il trapano che la madre usa nella sua stanza, e di cui non vediamo nulla. 

Il passato appunto, come un trapano, ha scavato nell’animo della donna, non le ha dato pace, e trova sollievo solo quando quella porta si apre e riesce di nuovo a guardare in faccia quella madre di quando era bambina, rimasta identica nell’aspetto, nella sua infelicità, nel suo malessere. Ora Isa, da lontano, la vede e la comprende, prova ad aiutarla ed è come se aiutasse se stessa e si perdonasse per quella telefonata persa, per quell’essere voluta fuggire davanti al dolore, per averla in qualche modo abbandonata a se stessa, ferma ad una finestra ad osservare cosa accadeva di fronte. 

Ed è proprio una finestra, grande, bellissima, che in quell’aldilà che non vedevamo e che ci viene svelato solo nel finale, la madre ha costruito per la figlia. Una finestra da cui guardare fuori, lontano, avanti, oltre, da spalancare ogni mattina per far entrale l’aria e scacciare via tutto il residuo di un passato che ci dà fastidio, permettendo di essere leggeri, nel presente, che è pieno di un passato inglobato e amato. Eppure aleggia e incombe la solitudine, la paura del vuoto e del silenzio, dell’assenza della madre, come qualcosa di insuperabile. “Il tempo dell’altro è passato” cita Isa nel finale. E senza l’altro, noi, cosa siamo? Nulla! Viviamo in relazione all’altro, a quello che gli altri ci donano e ci hanno donato, grazie a quel passato pieno di altro ed altri, che anche quando passa, anche quando lo lasciamo uscire fuori dalla finestra, anche quando se ne va e ci lascia soli, ci rende ricchi, in un vuoto pieno che sa di altro.

Lucia Calamaro intesse una drammaturgia esistenzialista, sensibile, sul tema del passato, dei legami filiali, della solitudine, cucito addosso a Isabella Ragonese, impeccabile strumento delle sue parole: realistica fino al midollo, gioca con naturalismo sui drammi, strizza l’occhio al pubblico, spesso lo chiama in causa, abilissima nell’alternarsi tra questo al di qua e quell’aldilà, coadiuvato da una regia che, facendo utilizzo anche della macchina da presa, proietta e si sofferma sui suoi primi piani cinematografici, intensi, loquenti. Ora donna risoluta, ora bambina ingenua, ora coraggiosa, ora impaurita, l’attrice è un’eroina moderna in grado di rompere quella gabbia del rimpianto psicanalizzando la madre( una delicatissima e commovente Emilia Verginelli, tutta voce, silenzi, pause), e in un certo senso se stessa.

Un trionfo di umanità, di vita, di speranza.

Uno spettacolo che da lontano ci accarezza, ci prende per mano e ci porta vicino al senso assoluto del nostro essere. Del nostro esistere.

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