A Roma nu je frega. “Metroromantici” inno alla Capitale

24 Aprile 2023

Dannata, maledettamente venerata, sfruttata, calpestata da malavita, noncuranza, disordine e caos; chi abita nella Capitale non può non aver odiato, almeno una volta, percorrere quotidianamente le sue strade, nevrotiche, dove tempo e spazio sembrano non essere mai abbastanza; ma, citando il Muro del Canto «chi vive davvero sta città, ritrova il senso a tutto e non se ne vò più annà»; lasciare Roma, difatti, anche per poco tempo, è vivere sulla pelle, intensamente, la legge dell’attrazione: Roma è autentica, spontanea, eterna e moderna, una madre disincantata, austera e attrattiva, dalla cui seduzione è difficile volere una totale indipendenza.

Roma non è i suoi eterni monumenti, Roma è i suoi abitanti, che a testa bassa, lusingando i sampietrini, ogni giorno la tingono di emozioni, trepidazioni e disillusioni, il cui eco silenzioso, in questi ultimi anni, è stato inciso sui muri dal movimento artistico dei Poeti del Trullo, che con le loro poesie hanno dato voce al cuore romano, popolare e passionale.

Ed è proprio con una mise en éspace di alcuni componimenti della raccolta “Metroromantici” di questi poeti di strada, che Francesco Giordano, Lorenzo Parrotto, Riccardo Parravicini e Roberta Azzarone, il 21 aprile al Teatro India, hanno celebrato il Natale di Roma. Un momento di alta intensità, sentimentalmente identificativa, dove Roma è stata raccontata in tutta la sua comica crudezza.

I versi de Er Bestia, Er Quercia, Marta der Terzo Lotto, Sara G., Er Farco e Inumi Laconico, affidati a una scenografia scarna, quasi del tutto assente, supportata a tratti da riproduzioni audiovisive, si materializzano con la voce interpretativa, mordace, del quartetto di attori, che in abiti casual, manieristicamente incarnano la veridicità e la genuinità degli abitanti di Roma, riproducendo con naturalezza la teatralità insita nel dialetto romanesco.

La successione delle poesie segue un andamento suggestivo, spaccati di vita dalla narrazione più lunga si alternano a taglienti ermetici componimenti; un mosaico stilisticamente e concettualmente variegato il cui fine è stato quello di svestire Roma da moralismo e perbenismo, decantando l’incanto, il fascino poetico della tenera semplicità della periferia, della durezza e severità che, talvolta, comporta avere o aver avuto Roma come culla.

È la vita stessa ad essere stata celebrata, in un contesto, quello del teatro, anch’esso vita pura, ricordando che non servono maschere, abiti o importanti istallazioni sceniche per evocare, far riemergere e descrivere l’umanità di donne e uomini, ma solo la poesia.

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