Fuck Me(n). Maschi, non uomini

20 Maggio 2023

Tre esemplari di mascolinità tossica. Tre monologhi corali uniti in un’unica voce sessista, misogina e maschilista. Ridicoli, velenosi, dannosi, tanto per le donne quanto per loro stessi.

Così si è aperto il Festival Inventaria 2023 della Compagnia DoveComeQuando: con lo sguardo anticonformista di Fuck Me(n), a firma di Giampaolo Spinato, Massimo Sgorbani e Roberto Traverso, con la regia di Liv Ferracchiati, sul processo di disumanizzazione maschile attuato dall’arcaica normalizzazione del patriarcato e sulla quotidianità maschiocentrica che ancora oggi decentralizza diritti e doveri.

A luci spente Giovanni Battaglia, Emanuele Cerra e Paolo Grossi si posizionano sul palco; le loro sagome suggeriscono forme femminili. Sono le ombre di tutù e vestitini che i tre attori indossano sopra una felpa o una camicia. Già dalla prima scena il messaggio satirico arriva diretto senza postume letture simboliche.

Il primo interpreta un professore universitario affetto da satiriasi, le sue prede preferite sono giovani matricole, a eccitarlo è la loro fresca sessualità, la sensuale innocente sottomissione nel concedersi a chi ha potere sul loro futuro. Con una colorita crudezza lessicale non fa sconti nel descrivere giovani corpi e nel raccontare le sue avventure clandestine. È consapevole della sua depravazione, ma non può ribellarsi al suo istinto. Oppresso dai suoi incontrollabili sentimenti è similmente l’uomo di Grossi, un borghese qualunque, dedito a casa, lavoro e famiglia, ma di quest’ultima ha perso il controllo dopo la nascita del figlio Tommy; è geloso, frustrato dalle attenzioni che la moglie dedica al piccolo, maschio anche lui, una minaccia al suo potere patriarcale, un rivale con cui entra in competizione. Anche in lotta è sempre il personaggio di Cerra, un adoratore di Muhammad Ali, che con un’animalesca apologia della violenza insegna al figlio, Nick, la giustizia dell’attacco e della vendetta.

Ogni storia una situazione diversa, incastro perfetto l’una dell’altra, tenute insieme dal fil rouge di un maschilismo che non possono soffocare; un maschilismo che sembra istinto, bestialità innata, ma è tutt’altro, è una formale venefica natura culturale; è l’istinto socialmente costruito del padre che come una condanna eschilea sembra ricadere sui figli, di generazione in generazione.

Tutti e tre si presentano in abiti femminili, sono maschere, si santificano rispetto alla donna ma non possono sussistere senza la loro approvazione-venerazione, la vogliono accanto, su di loro, così come le vesti che indossano. Man mano scavano sempre più nella loro orrida interiorità: fragilità, debolezze, lentamente si manifestano con lacrime e ammissioni di colpa. Con il calarsi della maschera, anche i vestiti vengono meno. Indumento dopo indumento, i tre uomini restano nudi, dimostrando che un maschio non ha bisogno di costumi per essere ridicolo, ma lo è esistenzialmente.

Pertanto se da un lato la pièce minimizza, canzonandola, l’idolatria del maschio alfa, dall’altro ripercorre le tracce di un’incarnazione ineluttabile, fatalista, di modelli conformisti dall’origine primitiva in cui uomo è simbolo di forza e controllo, una rigenerazione di cui anch’essi sono vittima, e cedervi, diventando carnefici, sembra l’unico modo che hanno per liberarsi dai sensi di colpa.

La scrittura e la messinscena dunque risultano frutto di un lavoro ragionato, l’anticonvenzionalismo della forma non cede mai a superflui estetismi, e il delicato uso del nudo è cucito con criterio nel manto della narrazione; un teatro di confessione e sconfessione di moralismi e ideali preimpostati, un teatro che svolge fino in fondo la sua funzione d’indipendenza ed emancipazione, maschile e femminile.

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