“María”, la magica inevitabilità del caso

25 Maggio 2023

Un’ermetica, poetica, chicca scenica; uno spaccato individuale quanto universale dell’ineluttabilità umana, sostantivazione per gesti e immagini dell’incontrollabile mutamento delle vicissitudini telluriche che solo cedendovi possiamo accettare e sostenere, senza, tuttavia, mai comprenderne principi e messa in atto. Questo è lo spettacolo “María”, andato in scena al Teatro Basilica nella rassegna del Festival Inventaria 2023, a firma di Elena Delithanassis; una storia dove le forme innovative del teatro di prosa sperimentale hanno saputo ben veicolare l’intensità e la meraviglia del realismo magico, portando sul palco, senza troppe parole, il dolore e la rassegnazione di una vita fuori controllo.

A segnare i primi passi è un silenzioso individuo dal volto coperto, giacca lunga e cappello, uno spiritello richiamante la funzione di manifestazione onirica degli yōkai giapponesi nei film di Miyazaki. Trasporta degli oggetti, prepara la scena per l’entrata di María (Elena Delithanassis), un’ex ballerina nella Spagna franchista che ha abbandonato la sua vocazione per seguire il lavoro del compagno Saturno (Marco Palazzoni), mago occasione, per feste ed eventi.  

María lo sta raggiungendo a Barcellona quando la sua macchina si ferma, ed è costretta a salire su un autobus alla volta di un istituto psichiatrico.

María vuole solo fare una chiamata, lo urla, implora, ma l’infermiera (Ilaria Santostefano) non la lascia andare, la sveste, le taglia i capelli, la trattiene, mitigandola prima di forma, poi di carattere, con gli altri pazienti, personificati da inermi manichini su ruote, perché inermi, disumanizzati in quel tempo si finiva dopo i soprusi e le violenze della detenzione forzata; ed è in questo che María muta, in un essere disarmato di spirito e intenzione.

Di tenerezze ne ha, sono i sogni che la liberano da quella tunica bianca e la fanno ballare con i capelli lunghi e il corpo sensuale, le donano la maternità, la rendono quel che era e quello che sarebbe stata.

Con quest’intimo sogno sembrava essersi concluso il racconto di María, ma una sintetica voce fuori campo, in maniera molto esaustiva, informa che la protagonista è riuscita a uscire da quell’incubo, sorride, con l’esistenza spezzata e segni che non può cancellare: ha accettato l’inevitabilità dell’aver preso quell’autobus.

La narrazione è storia da romanzo, ma poco ha del romanzo, si sviluppa dai gesti e da un armonico, incisivo dialogo tra luci e accompagnamento sonoro; ogni frammento espositivo è introdotto da una preparazione scenica in itinere, a tratti dilatazione di inevitabili momenti morti.  Nonostante qualche leggera formale nota stonata, la regia è curata in ogni minimo dettaglio, ogni elemento ha un preciso peso simbolico e nessuna decisione la Delithanassis, al contrario di María, sperimenta lasciandosi guidare dal caso; come la rosa tra i capelli della protagonista spicca nel pallido alone cromatico dell’istituto, ogni scena straziante ha epifanie di bellezza, che sia un fiore, una parola, un segno, mai la speranza e l’incanto smette di colorare l’impalcatura didascalica.

Gli interpreti, dal canto loro, danno prova di un’efficace eloquente mimesis corporea tipica del cinema muto in salsa chapliniana, un movimento è specchio e motore di quello dopo; è un gioco di surreali silenzi e di ritmi incalzanti, trascrizione fisica del mistero per immagini con cui la poesia legge ciò che non possiamo spiegare.

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