Chiudere gli occhi, lasciarsi trasportare, sentirsi sono segni e sintomi di vibrazioni fluite dell’ascolto del brano In a Landscape di John Cage; composto nel 1948, senza essere colmato da parole, delicatamente, con determinazione, trasmette tutta l’invisibile magia e il divino del reale; un viaggio acustico a cui il CollettivO CineticO ha dato il suo contributo visivo con il terzo capitolo del progetto Dialoghi, Dialogo terzo: in landscape, a firma registica e coreografica del Leone d’Oro 2019 Alessandro Sciarroni, andato in scena il 2 agosto nell’ambito della terza edizione di Sotto l’Angelo di Castello: danza, musica, spettacolo, rassegna a cura di Anna Selvi.
Nell’abbraccio della suggestiva cornice panoramica della terrazza di Castel Sant’Angelo l’esibizione site-specific si radica e si plasma: Simone Arganini, Margherita Elliot/Teodora Grano, Carmine Parise, Angelo Pedroni, Francesca Pennini, accompagnati dalla mano musicale di Stefano Sardi, fanno il loro ingresso in fila indiana in abiti retrò, camicie monocolore e gonne a palazzo (a cura di Ettore Lombardi); come fossero appena arrivati da un’altra dimensione, si guardano intorno, cercano con gli occhi il consenso del tastierista, esplorano l’area intorno a loro, si posizionano, facendo roteare intorno alla vita, alla testa e alle mani un hula hoop, che forma e delimita il loro spazio personale.
Ognuno, nel proprio piccolo confine, indaga ogni possibilità di movimento, a mano a mano non è il corpo ad adattarsi alla circolarità dell’oggetto di scena, ma è l’oggetto ad ubbidire ai loro moti sempre più frenetici e intraprendenti.
Ogni atto richiama quello precedente, creando una corrente di visualizzazione gestuale alimentata dalla mimesis della ripetizione, canalizzata anche a supporto di singole esibizioni, contemplate dalle energie dei restanti danzatori e danzatrici seduti in cerchio, come in antichi riti tribali.
Lo spettacolo pertanto dipinge un leggiadro, astrattista, mosaico di virtuose geometrie, precise, ostinate, ripetitive, ma di area e perimetro malleabili, si allargano e si restringono sul lancio di input con cui gli artisti dilatano il tempo e l’ambiente scenico, arrivando a dialogare silenziosamente con il pubblico.
Un dialogo studiato e particolare; difficile e criptico, qualora la platea non arrivi a comprenderne il lessico e il registro simbolico, rischiando di essere considerato uno studio di movimento, e non coreografia in toto; ma è proprio questo mistero la chiave di lettura.
John Cage voleva «calmare la mente e disporla alle influenze divine», e così Sciarroni ha perseguito l’obiettivo: i corpi si perdono, quasi svanendo nella materia del cerchio, nel suo roteare, nelle sinergie di una veste cinetica iterativa e nei costumi uguali, ingredienti che al contempo li omologano e li sfibrano, connettendoli al manto empireo impercettibile; un tipo di congiunzione fedele alla realizzabile connessione tra ballerino e mondo trascendentale promossa dall’euritmia di Steiner, da seguire, condividere e far propria ‘sentendo’ e non ‘comprendendo’, come ogni slancio misterico vuole e la colonna sonora suggerisce.
(Fotografie di Roberta Segata)