In dialogo con Silvia Cassetta tra danza e architettura

3 Ottobre 2023
Ph Maria Elena Stella

L’architetta e danzatrice pugliese Silvia Cassetta, dopo la laurea specialistica in Coreografia all’Accademia Nazionale di Danza di Roma porta avanti la sua ricerca Danza è architettura che connette queste due discipline unite da un verbo essere, simbolo di un’identità e di una sintesi tra le arti. Così nascono e si definiscono nuovi spazi, traiettorie e dinamiche.

Silvia, Danza è architettura è la massima che racchiude la filosofia della tua ricerca. Cosa significa?

Sì, Danza è Architettura, è la ricerca su cui si fonda il mio Artistic Statement, con il quale propongo non solo l’identificazione tra la danza e l’architettura ma la loro connessione per uno statuto teorico che promuova l’approccio coreografico-compositivo nella loro unione, come se fosse un nuovo metodo da studiare. Quello su cui svolgo ricerca, infatti, è un sistema coreografico che consideri l’architettura una “matrice” coreografica, da cui essere “s-mossi”. Cerco sempre però di stare attenta a non inseguire una descrizione di forme, ma di cercare l’origine del movimento nelle percezioni che l’architettura offre, attraverso l’interazione diretta del corpo con i materiali, con le forme, gli odori del luogo, la luce che lo attraversa. L’obiettivo della mia ricerca è postulare la tesi che la danza, intesa come architettura stessa del corpo e come rapporto del movimento nello spazio, possa essere non solo messa in relazione con l’architettura ma diventare uno strumento di lettura dello spazio stesso.

Che cosa rappresenta per te lo spazio?

Lo spazio è innanzitutto un “contenitore”, se si parla di spazio architettonico, rappresenta dunque l’ammissione di fragilità dell’uomo che ha bisogno dell’architettura per proteggersi, nascondersi, vivere la parte più intima della sua vita. In nome di questa immobilità a custodia del nostro corpo, c’è un sentire che va al di là delle pareti che ci contengono; è lì che cerco di cogliere l’ispirazione, in quel punto sottile della percezione che la nostra anima ha con il luogo, in quel momento si apre tutta la nostra percezione, ognuno di noi può vivere il significato del luogo in maniera diversa e mi interessa indagare come il corpo possa danzare in relazione a quel determinato spazio, in base alla sua caratteristica architettonica e soprattutto percettiva. Di fondamentale importanza è stato per me il pensiero di J. Pallasmaa ed il suo testo Gli occhi della pelle, nel quale analizza quanto i materiali e l’atmosfera spaziale nell’architettura siano fondamentali per sensazioni e percezioni, come per la Danza.

Come definiresti il concetto di architettura del corpo?

Da architetto ritengo che la composizione non si basi solo sulla ricerca di elementi, materiali e forme, ma necessiti di una più complessa attitudine e di intuizione, stratificate in più livelli sia culturali che emotivi. Da coreografa penso che oltre ad una metodologia corretta e consapevole, un progetto coreografico possa nascere, anche, dalla motivazione suscitata da un sostegno che vada al di sopra della danza stessa. Nella danza classica il corpo stesso è architettura; in genere l’identificazione tra le due discipline si ferma al concetto di forze, tensioni e leve corporee che associano la danza ad un’architettura in movimento. Nella mia ricerca cerco di considerare il corpo come architettura complessa in movimento, più nella sua articolarità, che nella forma, nella destrutturazione di un linguaggio di stile, in modo da sviluppare un movimento che sia sempre in relazione con la gravità. In questo continuo dialogo ci dovrebbero essere i movimenti espressivi fatti di libertà di espansione o ripiegamento su se stessi, a seconda di quello che ci interessa esprimere con il corpo. Mi piace dire che uso il corpo come fosse una matita, è un mio mezzo espressivo, per raccontare una storia o esprimere percezioni nell’atto dell’improvvisazione. Sento molto vicina la ricerca improvvisativa, poiché rappresenta un momento di restituzione al pubblico di autenticità che mi aiuta a dare un senso a ciò che propongo. E’ un momento intimo di verità dove il corpo si racconta in un movimento libero da un linguaggio estetico, verso una comunicazione di ciò che si ha dentro che magari non uscirebbe attraverso la parola. 

Il corpo è uno strumento che lascia la sua traccia nello spazio. Che tipo di spazi preferisci per la tua danza?

Grazie per questa domanda, perché mi permette di rispondere con una riflessione che tenta di proporre una nuova lettura degli spazi attraverso il movimento. Sono attratta dalle architetture di Zaha Hadid, che è stata una grande architetto irachena, con base a Londra. Proprio su uno dei lavori di  questa donna carismatica è nato il mio lavoro di tesi, che si è sviluppato attraverso una ricerca coreografica al MAXXI, luogo emblematico per il suo dinamismo spaziale. Mi sento vicina alla filosofia compositiva di Zaha Hadid, che partiva da un’astrazione delle forme per offrire una successione di linee, esasperando diagonali, curve, sbalzi, per evocare un’idea di movimento nell’architettura, che trasferisco in coreografia. Ho anche un interesse particolare per i luoghi dismessi perché mi piace sperare che la danza possa reinterpretarli e farne rivivere il genius loci dimenticato, per offrire una proposta progettuale.

Il tuo lavoro Danzasìa è andato in scena a Casa Cava (Matera). Ci parli di questa esperienza?

Danzasìa è una crasi tra danza e poesia, è un progetto andato in scena nel 2021 che mi ha vista danzare a contatto con la pietra e con un pavimento completamente vetrato. È stato molto difficile al livello fisico danzare sul vetro, ma mi ha permesso di dare significato al concetto di quanto la danza cambi a seconda dei diversi materiali. In quel teatro – all’interno appunto di una ex cava di tufo – ho ricreato movimenti al ritmo di parole, c’erano pochi suoni, mi interessava che fosse la parola a far danzare il corpo e il silenzio a restituire il suono del respiro e dei passi.

Quali sono i tuoi prossimi progetti e in che modo vorresti far evolvere la tua ricerca?

Quest’anno abbiamo messo in scena S-muove, che è una indagine del movimento di fronte a ciò che non conosce, un lavoro sul corpo come testimonianza di tutto quello che lo rende vivo e consapevole delle sue fragilità. E’ stato un lavoro molto intenso sulle proprie incertezze, senza le quali, non potremmo affatto crescere. Ha debuttato a Brescia ma lo stiamo proponendo in diversi luoghi. Continuare con questa proposta è un obiettivo ma i prossimi progetti continueranno ad essere molto in relazione anche con il suono, sto preparando, infatti, uno spettacolo con una violoncellista molto brava. Mi interessa nel futuro indagare sull’alterità, sulle molteplici relazioni artistiche del corpo, oltre all’architettura, anche il suono può essere un sostegno con cui confrontarsi, sto facendo ricerca su quanto il movimento non derivi da un approccio solo uditivo, ma epidermico perché il corpo sia s-mosso da una ricerca musicale attiva. Inoltre nei prossimi progetti continuerà ad esserci la luce, altro elemento fondamentale per la mia indagine sia come architetto che come danzatrice, poiché mi permette di esplorare una dimensione molto poetica attraverso la tecnologia. Nella mia ricerca, una luce laser, usata anche nei cantieri architettonici, danza con il corpo e sottolinea spazi, per elevarli a supporto del movimento, viene proiettata su viso, corpo, pareti per “scansionare” il corpo e interagire con nuove direzioni di movimento nello spazio.  Il mio è un viaggio fatto di esplorazioni, che ha cercato di unire due discipline in una sintesi che ora, finalmente, mi fa sentire “intera”. 

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