“Il guardiano” di Pinter al Teatro Lo Spazio: l’immutabilità dell’essere umano

21 Novembre 2023

Misurarsi col drammaturgo Harold Pinter non è facile, da attore e spettatore. Inquietudine, esistenzialismo, lotta per l’umana affermazione contro l’antropocentrismo, disperazione e possibilità, angoscia e comicità; i suoi testi, apparentemente cantori di realismo e quotidiani episodi, valicano il concreto per analizzare, con critica e sottile provocazione, ma mai sboccata denuncia, l’essere uomo al di là di ciò che possiamo vedere e collocare nella linea spazio-temporale.

Pinter irrompe con delicatezza nel nichilismo attraverso esempi in cui ognuno può riconoscersi per comprenderne a pieno i comportamenti marci, tuttavia la sua non vuole essere una lezione vita, bensì una profonda speculazione etico-morale.

Proporlo e riproporlo, oggi, sul palco significa creare le giuste condizioni sceniche, mentali e ambientali, affinché non venga perduta quell’ombrosa sfumatura, quella tensione trascendentale che percepiamo leggendo con attenzione le sue storie; una sfida tra attore e regista, attore e pubblico, attore e sé stesso vinta dalla rappresentazione del dramma comico Il guardiano, andata in scena al Teatro Lo Spazio, con la regia di Duccio Camerini e la traduzione di Alessandra Serra, in cui a indossare le complesse vesti dei personaggi pinteriani sono i giovanissimi Lorenzo Mastrangeli e Leonardo Zarra, i quali per spigliatezza, capacità interpretative, tempi comici e drammatici non sono stati da meno affiancati alla comprovata esperienza attoriale del Camerini.

Tre generazioni, tre differenti modi di essere a confronto, il bene e male che si mescolano e scena dopo scena si diramano soverchiando i ruoli: i due fratelli Mick (Lorenzo Mastrangeli), scanzonato, disinvolto e smaliziato, e Aston (Leonardo Zarra), cupo, silenzioso ma cortese, abitano da soli in un vecchio teatro abbandonato, fino a quando il secondo non invita a passare lì la notte il senza fissa dimora Davies (Duccio Camerini), dopo averlo salvato da una rissa in un bar.

Davies si presenta come un personaggio positivo; non ha un posto dove stare, non ha documenti e non ha famiglia; rimane coinvolto, subendole, nelle angherie e negli strani comportamenti dei due ragazzi, ma sprazzi della sua non totale amabilità fuoriescono fin da subito da commenti razzisti e richieste sempre più pretenziose; sfumatura maligna che non si addolcisce neanche con le attenzioni ospitali di Aston e l’offerta di lavoro come guardiano da parte di Mick.

L’uomo non cambia, non è nella sua natura e Davies, nato maligno, non può non esserlo nonostante il bene che gli viene offerto senza tornaconto. Così, in un susseguirsi di episodi inquietamente e inquietantemente comici, il vecchio finisce col rivelare fino in fondo la sua vera indole, cercando, oltretutto, di mettere i fratelli l’uno contro l’altro; ma anche chi è buono è destinato a non cambiare; pertanto i due protagonisti altro non possono fare che allontanare il male che stava alterando il loro equilibrio.

Come il testo di Pinter è sull’uomo, la regia di Camerini è per l’uomo, con una scenografia al centro e tra il pubblico, il quale percepisce ogni rumore, sospiro, rivela ogni espressione e si sente parte integrante della suggestione narrativa, costruita su silenzi, attese e fini battute.

Sedie, cavi, scale, vestiti, scarpe e coperte, ogni elemento è usato per rappresentare il bene nelle mani dei fratelli e il male nelle mani del futuro guardiano. Quei conduttori che Aston pone sulla testa di Davies, mentre simula, ricordandola, la terapia con l’elettroshock a cui è stato sottoposto anni prima, non si accendono, perché il marcio, eterno e immutabile nell’uomo, difficilmente può essere estirpato, come gli ultimi patriarcali fatti di cronaca, ancora una volta, hanno dimostrato; ma, come Pinter raffigura, anche il bene non può essere estirpato, e questo apre la possibilità di rivalsa e libertà.

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