“Una compagnia di pazzi” di Antonio Grosso: un ironico microcosmo antifascista

24 Gennaio 2024

Mentre per le strade, per cielo e mare, durante la seconda guerra mondiale, le potenze dell’Asse distruggevano e si distruggevano, un’altra guerra era in corso, una guerra di dimenticanza, di vite e parole soffocate dalla noncuranza di chi era troppo impegnato a sopravvivere per curarsi dei deboli e di chi voce e valore umano non ne aveva più all’occhio esterno; è la guerra che si consumava tra le mura dei manicomi senza personale, senza cibo, senza risorse e finanziamenti, dove a crollare non era solo la calce che rivestiva l’edificio  ma l’esistenza dei pazienti che altro non avevano se non quelle pareti, se sebbene aride, a proteggerli.

Per loro la guerra rappresentò una vera, delicata, estenuante, corsa alla sopravvivenza; e proprio su questo piccolo microcosmo sociale posa lo sguardo “Una compagnia di Pazzi” di Antonio Grosso, con Antonio Grosso, Antonello Pascale, Rocco Piciulo, Francesco Nannarelli, Gioele Rotini, Gaspare Di Stefano e Natale Russo, andato in scena, dopo il successo ricevuto lo scorso anno, al Teatro Nino Manfredi, con parte del cast di “Minchia Signor Tenente”.

Un dramma ironico e autoironico, specchio di un’Italia lontana e di episodi culturali ancora attuali, dove gli eroi non sono i partigiani ma un “equipaggio” formato da tre pazzi, tali perché lasciati impazzire, e due infermieri, alle prese tra dovere e senso morale; cinque civili privi del loro essere “civile” dalla dittatura e dal loro personale dittatore, il direttore del manicomio, riproduzione in scala privata della pubblica figura del Führer.

Tra scherzi, battute, galanterie, ricordi e nostalgie, la loro corsa alla sopravvivenza si trasforma in un gioco di sopravvivenza; i cinque, con scarso cibo e poco denaro, trascorrono le giornate sostenendosi e unendosi l’un l’atro con piccole, quasi invisibili, accortezze di gentilezza ed empatia; ognuno di loro conserva e trasmette la sua umanità, nonostante l’orrore alle loro spalle. Ognuno di loro ha una storia, vera o finta che sia, a cui aggrapparsi per non perdere sé stesso; ognuno ha qualcosa per cui combattere e difendere dai nazisti, legami esterni che ben presto faranno spazio al legame che, ora, gli unisce l’uno all’altro, trasformandolo nel loro principale soggetto da proteggere.

Il taglio registico e drammaturgico di Grosso diverte e fa riflettere, non annoia con ridondanti ritratti storici da sempre presenti nelle cronache memorialiste, bensì le ripropone in salsa nuova, rendendo lo spettacolo caratteristico di un tipo di produzione dalla rilettura storiografica non binaria e tradizionalista.

Nemici diventano eroi e vittime carnefici: insolito, difatti, è assistere a una comprovata sensibilità negli infermieri dei manicomi, da sempre descritti come avide bestie dalla mano pesante, e a un ebreo (non sveliamo chi) diventare tiranno per difendere i propri interessi.

Una messinscena equilibrata, dolceamara, priva di sbavature sceniche, per sorridere e ragionare su ciò che siamo stati, e ancora, purtroppo, siamo.

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