Giada Prandi, Latina e Anna Cappelli: una triade magica nel nome di Annibale Ruccello

9 Aprile 2024

Giada Prandi è una più che brava attrice che da un po’ di tempo a questa parte – il debutto dello spettacolo “Anna Cappelli” che dà lo spunto a questo articolo e che in realtà assumerà la veste di intervista è datato 24 maggio 2022 presso il Teatro Moderno di Latina – calca diversi palcoscenici italiani con uno dei testi più significativi di Annibale Ruccello, importantissimo drammaturgo napoletano la cui scia brilla luminosissima ancora oggi nonostante la sua vita sia stata interrotta precocemente e brutalmente da un incidente automobilistico in quello che può già essere definito come il lontano 1986.

Insomma Giada Prandi interpreta le parole di Ruccello, le parole di Anna Cappelli, come prima di lei alcune attrici fuori dall’ordinario hanno fatto – e parliamo, senza timore di essere giudicati degli esagitati, di interpreti del calibro di Anna Marchesini e Maria Paiato, ad esempio -, e lo fa con una tale tecnica, un tale corpo e un tale cuore che si è voluto provare a chiacchierare con lei sul suo lavoro, su quest’ultimo spettacolo che la vede assoluta mattatrice nelle sapienti mani del regista Renato Chiocca e sulle sue future ambizioni personali e professionali.

Insomma, questa è l’intervista a Giada Prandi.

Bentrovata Giada, iniziamo questo nostro confronto con una riflessione che vuole mettere in correlazione la tua città di provenienza e il luogo in parte fisico ed in parte emotivo dove “Anna Cappelli” è ambientato, ossia la città di Latina. Quanta è stata decisiva questa corrispondenza nella scelta di produrre questo lavoro?

Salve, Giuseppe. Io sono nata e cresciuta a Latina, ma non credo sarebbe sbagliato affermare che ad un certo punto della mia vita io sia scappata dalla città della quale mi stai chiedendo. Ho studiato recitazione e mi sono diplomata presso l’ “Accademia Nazionale D’arte Drammatica Silvio D’Amico” e quindi la mia vita si svolgeva prevalentemente a Roma, ma dopo diversi anni di distanza si sono create le condizioni corrette per una sorta di ritorno e devo dirti che oggi posso dichiarare con grande serenità che la città di Latina oltre a rappresentare ciò che di fatto ha sempre rappresentato e ossia il concetto e la struttura di famiglia è risultata essere un ambiente di lavoro ideale che ti permette di sviluppare i tuoi progetti con quella calma che è necessaria per tirare fuori il meglio da tutti coloro che sono coinvolti nell’atto creativo.

Bingo, dunque. La corrispondenza della quale parlavamo prima ha giocato a favore della riuscita dello spettacolo che tanto successo sta riscuotendo.

Beh, sì, probabilmente sì. Oltretutto – e magari questo non è ancora stato dedotto dalla mia risposta precedente – eccezion fatta per mio marito Stefano, che si è occupato delle musiche dello spettacolo, tutte le persone coinvolte in questo allestimento sono originarie di questa zona e mi pare abbastanza evidente che la scelta, neanche troppo casuale, e a volte impostata sulla scorta di stima e conoscenza pregresse, di creare un team “territoriale” si è rivelata essere una scelta felice.

E dunque, probabilmente possiamo dirlo, questa corrispondenza tra il testo e la vita della quale mi hai chiesto in apertura può dirsi essere stata favorevole.

Ottimo, “un punto” che segno volentieri sul mio pallottoliere. Ma, ovviamente, questa non è una sfida, anzi, quanto piuttosto un confronto per me molto significativo che vorrei utilizzare per provare a carpire alcuni dei segreti alla base della tua sorprendente bravura. Lo spettacolo è una grande prova d’attrice di circa 60′, ma quanta tecnica c’è e quanto cuore c’è in questa tua performance veramente impressionante? E quale tra questi due elementi risulta essere il più importante?

Sai, di solito rispondere ad una domanda del genere richiede il dover accordare una sorta di compromesso tra le componenti che hai citato, ma questa volta, pur mantenendomi della e nella tradizione del “ci vogliono entrambi”, mi sento di volerti confidare una cosa che, a dir la verità, non credo sia neanche troppo segreta e che, anzi, mi auguro sia cristallina agli occhi degli spettatori che hanno assistito e assistono allo spettacolo: io in questo lavoro, per tutta la sua durata, ci metto moltissimo cuore. In questo spettacolo, lo ripeto con molta decisione e convinzione, c’è moltissima umanità e molto cuore e alla fine di ogni sacrosanta replica io sono stravolta dallo sforzo che questo personaggio e questa storia mi costringono a fare. Ovviamente, e ci tengo a precisarlo per amor d’attrice e anche, ma non solo, per tutti i miei allievi (la replica alla quale ho assistito era infatti una replica con una folta presenza dei suoi studenti di recitazione sulla gradinata del bel Teatro “Cometa off”), tale sforzo e tale condivisione di energia e sentimenti non è assolutamente possibile in assenza di una solida tecnica teatrale che ti guidi costantemente per tutta la durata del percorso interpretativo. Non è proprio possibile interpretare un personaggio, essere il mezzo attraverso il quale si racconta una storia, per 1h intera, senza possedere adeguatamente dei mezzi di controllo e di attuazione che non siano stati appresi in un serio percorso di formazione. Ma ci tengo a dire una cosa per me molto importante: la tecnica deve ovviamente esserci, ma non si deve vedere, si deve nascondere.

Capisco e d’altronde sin dalla premessa mi avevi anticipato che la tua risposta avrebbe ricalcato quella di migliaia di altri famosissimi professionisti della recitazione che non hanno mai amato questo falso dualismo tra cuore e ragione, tra sentimenti e perizia. Beh, allora, a questo punto vorrei un attimo affrontare con te l’argomento dello spazio scenico, dato che il lavoro di Massimo Palumbo – lo scenografo dello spettacolo – sembra assumere una funzione molto importante nell’economia dell’operazione che proponete. Tu cosa hai da dirci al riguardo?

Ho da dirti che lo spazio disegnato da Massimo, ovviamente ragionato insieme a Renato (Chiocca, il regista), può tranquillamente essere definito, se non come un vero e proprio altro personaggio dello spettacolo, come un elemento di valore fondamentale nel senso ultimo di questa messinscena. Questa doppia delimitazione fisica e luminosa – il cubo prima e l’ulteriore perimetrazione al di fuori della struttura tridimensionale – rappresenta assolutamente oltre che una guida per l’attrice che lavora anche una sorta di mappa per il personaggio che vive tramite la donna che le offre corpo, voce e, ripetiamolo, cuore. Tanto cuore.

Questo doppio livello progettuale è infatti importantissimo poiché rappresenta una moltitudine di cose nella vita esteriore ed interiore di Anna Cappelli. Dentro il cubo lei vive tutte le difficoltà che l’indossare le maschere sociali comporta, al punto che lei è compressa, obbligata a soffocare quanto di vero prova nel cuore, mentre nello spazio appena fuori, superata la prima “gabbia” avverte già una maggiore libertà che prova a tradurre in tentativi di espressione sicuramente meno nocivi di quelli convenzionali, ma ancora non sufficienti a donarle una consapevolezza di sé che si possa esercitare in una pienezza rodata e sana. E tutto quello che ho detto corrisponde proprio al disegno scenico prospettato per lo spettacolo e che ha sicuramente un immenso valore per tutta quanta la costruzione di ciò che come compagnia abbiamo inteso proporre (forse il termine “compagnia” in questo caso non corrisponde alla realtà fenomenica, ma lo si è voluto utilizzare per comodità espositiva).

Ci tengo anche a sottolineare l’importanza delle luci di Gianluca Cappelletti, delle musiche di Stefano Switala e dei costumi di Anna Coluccia che hanno un’importanza capitale e integrano tutto il senso del lavoro che abbiamo fatto.

Bene, Giada, anche questa risposta mi sembra estremamente esaustiva e per questo voglio ringraziarti calorosamente, ma prima di salutarti, avrei un’ultima curiosità: posso? Ma ti anticipo che forse, al di fuori di ogni mia intenzione, potrebbe risultare provocatoria.

Nessun problema, ci mancherebbe. Finora le tue domande mi sono sembrate intelligenti.

Grazie. Allora speriamo di non rovinare tutto sul più bello. Tutti sappiamo – o almeno lo sanno gli spettatori e gli amanti del Teatro di Ruccello – qual è la conclusione della pièce, eppure (senza volerla rivelare a coloro che non conoscono la storia) il pubblico empatizza con te e con la protagonista: bene, in un’epoca in cui la violenza di genere, ahinoi, la fa da padrona, come ti spieghi questa solidarietà e cosa pensi sarebbe accaduto se anziché di una donna Ruccello avessi scritto di un uomo?

Ma, guarda, per me la faccenda è più semplice e leggermente diversa da come l’hai posta tu: Ruccello ha scritto un testo intramontabile, un vero e proprio classico e ha creato un personaggio senza tempo che parla a tutti e quindi sia gli uomini che alle donne e io non ritengo che il punto della questione sia da ricercarsi nella presenza di un cromosoma sessuale piuttosto che in un altro. Io, piuttosto, ritengo che la gente empatizzi con il personaggio di Anna Cappelli perché è stato nella bravura di Ruccello l’aver lavorato su una persona – a prescindere dal sesso, ripeto – che è evidentemente bisognosa d’aiuto, incapace di accedere al nucleo più profondo del proprio essere e quindi, come detto già in un’altra risposta, vittima delle apparenze.

Noi – io e Renato, intendo – d’altro canto, sfruttando il profondo lavoro di Ruccello sull’animo umano, abbiamo cercato di prestare particolare attenzione – dedicandogli molto tempo – alle fragilità di questa donna, alle sue ombre, alla sua goffaggine.

E concludo dicendo che io ritengo che Anna Cappelli rappresenti un grido per l’emancipazione della società e che la strada è ancora lunga e tortuosa e che la società italiana affonda tutt’oggi le sua radici nello stesso brodo culturale ed antropologico in cui ha vissuto Anna.

Giada, come già detto, non era una sfida tra noi, ma un piacevole tentativo di approfondire lo spettacolo – tentativo, per quanto mi riguarda, andato a buon fine – ma ti saluto comunque mutuando una formula sportiva che declama la vittoria di un contendente su un altro: “Game, Set, Match”.

Sei stata illuminante.

Seguite Giada Prandi e questo spettacolo: non ve ne pentirete.

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