Dalle cose alle parole

16 Gennaio 2022

Un’incursione tra arte e design nel mondo dell’artigiano
teatrale di Gianni De Feo e Roberto Rinaldi

Testo Sofia Chiappini

Immergersi in un cosmo disordinato, frugando nei meandri più profondi delle parole, vuol dire abbandonarsi al potere salvifico della creazione. Nella casa dell’arredatore Roberto Rinaldi e dell’attore e regista Gianni De Feo c’è un modo di vivere gli spazi, che già di per sé rimanda a una struttura in qualche modo teatrale. Non è difficile immaginarsi come in quella casa, quasi interamente abitata delle scene create da Rinaldi per De Feo, possano nascere i loro spettacoli. Un ampio dislivello separa due sezioni dell’appartamento, quasi fosse un palco o un podio, per affacciarsi poi sugli ambienti più intimi e accoglienti della casa. Questa intervista è molto più di un semplice confronto sulle modalità e gli obiettivi, che animano la loro ricerca comune. È un’incursione nel loro mondo creativo, una trama che si snoda lungo il filo del ricordo, di un sodalizio profondo, che ha inizio quasi dieci anni fa. Diversi e antitetici sotto molti punti di vista, Rinaldi e De Feo, nella loro individuale e spregiudicata unicità, vanno a formare un dialogo artistico, che mai e poi mai avrebbe avuto senso scindere. Me lo spiega lo stesso Gianni a un certo punto della nostra lunga e piacevole incursione-intervista, quando racconta che: “Roberto ha dalla sua un intuito talmente spiccato che spesso, ancor prima di me, è capace di carpire il mio pensiero e anticiparne il percorso. Stranamente poi, ci incontriamo a metà strada, ma senza avere bisogno di dirci nulla”.

A colpirmi, innanzitutto, sono la poliedricità e l’inventiva con cui Roberto Rinaldi – ex arredatore d’interni, che oggi, oltre a dedicarsi all’attività di scenografo d’eccezione, si definisce, scherzosamente, ‘personal shopper’ – sa trasformare oggetti quotidiani in piccole opere d’arte. Lui stesso commenta così: “Alcuni oggetti possono essere belli in sé, grazie alla loro struttura geometrica o alle caratteristiche fisiche dei materiali con cui sono stati realizzati. Anche se la loro immediata utilità non risulta subito evidente, ci sono oggetti che mi colpiscono per la loro bellezza, ed è solo nel momento in cui inizio a entrare in contatto con essi, che comincio a sentire la necessità di apportare delle modifiche”. La loro casa è invasa da questi oggetti d’arte, che hanno assunto nel tempo sembianze assai diverse dalla loro origine. “Si tratta di cose – osserva Roberto – che hanno avuto una produzione e che, molto probabilmente, non avevano grande valore, data la velocità con cui se ne sono liberati i proprietari”. Dai manichini in plastica gettati via dai negozianti, fino ai piccoli uccellini di carta, che si posano sulle librerie stracolme, la loro è una casa che racconta mille storie diverse e lontane, in cui “persino dei foglietti acchiappa-colore per il bucato possono diventare un tessuto di tappezzeria”. In maniera rovesciata rispetto a quanto siamo abituati a pensare, Roberto Rinaldi riscopre nelle cose il vero senso dell’incontro con l’altro, perché la sua, oltre a essere una metamorfosi degli oggetti, è una metempsicosi dell’anima.

“persino dei foglietti
acchiappa-colore per
il bucato possono
diventare un tessuto
di tappezzeria”

R.R.: “All’epoca in cui lavoravo come arredatore, il mio era un settore di fascia alta, per cui maneggiavo oggetti già esistenti e, soprattutto, di un certo valore, che poi dovevano essere introdotti negli spazi. Per diversi anni, infatti, oltre a occuparmi di progettazione, il mio compito è stato quello di allestire e selezionare i materiali per il negozio in cui lavoravo. Per cui, dopo aver lasciato quell’impiego, ho iniziato a guardare agli oggetti per quello che erano, rifacendomi un po’ all’idea di certi designers, come potevano essere Enzo Mari o Bruno Munari. La sfida è quella di valorizzare oggetti semplici come posate, forchette, latte o, anche più semplicemente, una bottiglia di detersivo. Anche tra queste cose di poco conto si possono riconoscere design accattivanti per colore, forma e materiali, che mi pare assurdo non riutilizzare. Di conseguenza, se si ha l’obiettivo di introdurre nell’ambito del teatro professionale qualche cosa di molto economico, è assolutamente necessario un lavoro di trasformazione, affinché questo qualcosa possa essere messo al servizio della scena e del mondo che si vuole ricreare”.

E quando Roberto afferma, in conclusione, come “A volte, serva molto tempo per comprendere l’utilità di questi oggetti, che fanno parte della nostra quotidianità” risulta difficile non pensare che, in questa logica della rivalutazione degli oggetti, a celarsi sia, in realtà, una potente rivalutazione dell’umano. A trasformarsi, dunque, non sono solo quelle cose che saremmo tentati di buttare via, bensì anche qualcosa di noi. Centro propulsore del lavoro attoriale e registico di Gianni, infatti, è “un che di circolare, perché il teatro – dice l’attore – ha per me valore in quanto ritorno all’origine, ed è in questo moto che mi abbandono, lasciandomi condurre in un vortice ancestrale”. Ma è lui stesso, tuttavia, a sottolineare come di questi tempi, a essere sprofondato in un vortice iper-produttivo, sia proprio il nostro teatro: “Consumi tutto ciò che la città ti offre, senza mai davvero goderne. Non hai il tempo di rivivere e rivedere, capire e prenderti dei piccoli momenti di pausa tra uno spettacolo e l’altro. E di tutte le molteplici e diversissime offerte che esistono, molto spesso diventa impossibile usufruire, perché le teniture degli spettacoli sono troppo brevi”.

Una curiosità crescente verso la storia del loro incontro mi spinge a volerne sapere di più. “La nostra intesa – commenta per primo Gianni – è nata da subito, appena ci siamo incontrati. Era il 2011 quando da Parigi, dove per molto tempo ho lavorato e vissuto, mi chiamarono per invitarmi a condurre un laboratorio teatrale, presso il festival di Saluzzo. Decisi di mettere in scena il carteggio tra Maria Callas e Pasolini, all’epoca delle riprese di Medea”. “Lo spazio in cui venne realizzata la performance – aggiunge prontamente Roberto – non era un teatro in senso tradizionale, ma
una sala del Quattrocento, dal forte impatto visivo”.

“In ogni creazione – conclude Gianni – cerco sempre di partire da un primo elemento da cui poi scaturisce il tutto. In quel caso, il lavoro prese avvio da una grande striscia di stoffa rossa: un fil rouge che per me rimandava a un fiume di sangue, ma anche a un cerchio di fuoco, da cui è scaturito un carteggio capace di andare ben oltre le parole”.

Ma è solo con “La vela nera di Teseo”, che questo dialogo tra materia e intuito è reso ufficiale. Arrivati a questo testo di Valeria Moretti fortuitamente, Gianni e Roberto decidono di mettere in scena la pièce, che contava all’epoca solamente nove pagine. Una sfida, dunque, inizialmente voluta da Roberto, che coglie immediatamente il potenziale scenico dell’opera, dedicata in maniera assai atipica all’amore tra Teseo e il Minotauro. La lirica di cui il testo è intriso convince entrambi a dedicarsi a questo insolito progetto, sancendo così la nascita di un sodalizio a tutt’oggi fertile e ininterrotto.

R.R.: “È diventato una piccola opera rock, in cui confluivano i repertori musicali di entrambi. La testa del Minotauro altro non era che una radice, che avevamo trovato, e che aveva una somiglianza impressionante con l’immagine del Minotauro. Tanto che l’unico elemento introdotto fu un occhio di vetro, mentre il resto della struttura era stata lasciata intatta. Sempre nella logica del riutilizzo, usammo una travetta delle ferrovie, sul quale era montata una ruota di bicicletta, che creò – anche se, inizialmente, non in maniera voluta – un chiaro rimando a Duchamp. A decorazione
della ruota furono introdotte a raggiera delle lucine, che ricreavano un alone magico intorno a quest’opera. C’erano poi una serie di bastoni dipinti, che fortificavano l’ambientazione tribale e che Gianni montava verticalmente su delle basi di cemento, costruite con dei vasi rovesciati, e che alla fine erano legati con un filo, il famoso filo di Arianna, dando vita a un labirinto”.
In conclusione, non resta che riportare le parole di Gianni, quando osserva che “esiste una grande similitudine tra questi due mondi creativi”, quello dello scenografo e del regista, perché “l’oggetto, affinché diventi teatrale, ha prima bisogno di essere reso poetico “.

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