La spazio narrato. Cusumano al Nitsch Museum

5 Aprile 2024

«Hai mai immaginato di dare una dimensione diacronica al tuo lavoro sullo spazio?». È la domanda che Pete Brooks, regista irlandese direttore del MA Scenography, poneva ad Andrea Cusumano agli inizi degli anni Duemila. Nel 2003 l’artista palermitano si trasferiva a Londra per studiare al Central Saint Martin per indagare i possibili rapporti tra installazione e drammaturgia; allora, tra l’altro, era già direttore dell’orchestra del Teatro delle Orge e dei Misteri di Hermann Nitsch. Il passaggio da una concezione statica del fatto artistico a un successivo sviluppo diacronico rappresenta, nella sua produzione, uno snodo decisivo. Su questo si sofferma Raumdramaturgie. Drammaturgia dello spazio, personale curata da Giulia Ingarao e Fabio Cavallucci al Nitsch Museum di Mistelbach, in Austria. Il progetto espositivo, pensato da Ruber.contemporanea e realizzato con il sostegno dell’Italian Council, intende addentrarsi nella polimorfica attività di Cusumano, ponendone in relazione gestualità e “manualità”. L’allestimento ripercorre un trentennio di creazioni a partire dalla serie della Pittura Gestuale dei primi Novanta, fino ai Crateri e gli Ostraka in terracotta, chiaro riferimento alla cultura classica, in cui si riscontra il racconto figurativo di eventi performativi – tra gli altri Tragödia, Speculum Celestiae Sinfonia Diagonale, Praxis, L’amaro credo del mago Cotrone. Abbiamo raggiunto l’artista al telefono, per concentrarci su questo complesso sistema di coincidenze tra linguaggi apparentemente differenti, unificati dal senso drammaturgico della spazialità intesa come luogo della narrazione.

Raumdramaturgie è letteralmente una drammaturgia dello spazio. Quando e in che modo le istanze performative del fatto artistico si sono introdotte nella tua produzione creativa?

L’attenzione nei confronti dello spazio c’è stato fin da subito, però l’interesse nei confronti di questa disciplina è arrivato un po’ avanti nel tempo. All’inizio degli anni Novanta intrapresi un progetto installativo in cui utilizzavo un medium a me congeniale: la scultura. Di fatto è lì che iniziai, inconsapevolmente, ad esplorare il potenziale drammaturgico dello spazio. Le installazioni erano come grandi messe in scena silenti, statiche, in cui la drammaturgia veniva costruita attraverso un’articolazione complessa dello spazio rispetto al movimento dello spettatore. Non mi occupavo ancora di teatro né tantomeno pensavo di avere interessi di carattere teatrale; piuttosto mi interessava comprendere in che modo l’agire diacronico potesse interloquire con il mio operato artistico, allora prevalentemente sincronico – essendo io un pittore, quanto meno di formazione. All’inizio degli anni Duemila mi trasferii a Londra per studiare al Central Saint Martin, dove poi avrei insegato per tanti anni. Seguii un corso di Scenography, neologismo portato in Regno Unito alla fine degli anni Ottanta per indicare una serie di discipline non direttamente drammatiche, ma connesse all’utilizzo dello spazio (la traduzione esatta dell’italiano “scenografia”, in inglese, è set-design). La drammaturgia dello spazio è stata la chiave di volta che mi ha consentito di correlare discipline molto diverse tra loro, attraverso una metodologia in grado di individuare nello spazio un punto di partenza comune. Per me lo spazio non è il luogo in cui collocare la performance, ma è drammaturgia in sé. Dapprima lavorai col video, poi compresi che mi interessava fare teatro vero e proprio.

Foto di Karolina Ursula Urbaniak

E a quel punto hai avuto la possibilità di addentrarti, dalle arti figurative a quelle performative, in una processualità diacronica e narrativa.

Non solo, ma anche il contrario. Penso a Retablo, una serie di lavori creati dal 2014 fino al presente. Il “retablo” è una composizione con disegni, bassorilievi, sculture innestate all’interno di una struttura architettornica e geometrica. È una forma della liturgia sacra, della dimensione rituale a cui il retablo stesso appartiene – nel mio caso, i miei Retablo sono espressivi di una drammaturgia. In lavori di questo tipo si verifica la trasformazione della sincronia in diacronia, ma anche la sintesi, la ricomposizione spaziale dell’elemento effimero, la cristallizzazione visiva della performance. Non si tratta più del racconto della performance, ma di una nuova forma espressiva. In fondo, ho sempre esplorato la dimensione performativa da un punto di vista differente da quello strettamente teatrale. Sono stato assistente per anni a Salisburgo di Geoffrey Hendrix, tra i fondatori di Fluxus: mi sono confrontato con la performance anzitutto attraverso l’happening, la Live Art. Quando poi sono passato dalle installazioni alla costruzione di strutture drammaturgicamente più articolate, fino a vere e proprie pièce teatrali, è venuta fuori questa commistione tra il teatro e la Live Art – fondamentalmente quello che faccio oggi. Adesso ho abbandonato il teatro tout court, ho abbandonato la performance nel senso “Fluxus” del termine, per portare avanti una ricerca a metà tra le arti visive e il teatro.

Hai stabilito una relazione tra liturgia, atto sacrale e atto performativo. Penso alla poetica di Herman Nitsch, con il quale hai lavorato a lungo

La performance vista come estrinsecazione della liturgia nella contemporaneità è in genere un fatto appartenente a vari orientamenti: non solo Nitsch, che ho conosciuto prima come studente, poi come assistente, poi come docente nelle sue classi e infine, per oltre vent’anni, come direttore della sua orchestra. Certamente questa è stata un’attività molto intensa, la quale mi ha anche formato; detto ciò la dimensione liturgica è anche di Beuys, anche del Fluxus volendo, nonostante il suo approccio più ironico alla questione. Tuttavia, ho scoperto il senso profondo di questa relazione in India. Qui, in particolare in Kerala, sono ancora presenti molto forti, non solo come atto performativo ma in una piena dimensione sociale, una serie di riti (propiziatori, religiosi ecc.), antichi quasi duemila anni, più o meno come la tragedia greca. Lì mi sono reso conto di quanto le origini della nostra performatività e della nostra stessa idea di personaggio altro non sono se non una trasformazione di questo elemento rituale. Si tratta di cose note, che certo abbiamo studiato, ma in quel luogo si vedono dal vivo. Per me è stata davvero illuminante la reale comprensione di quanto la maschera possa essere, per chi la veste, un elemento di mutamento, di preparazione, e non un elemento di mascheramento effettivo. È a partire da questa consapevolezza che ho cercato di dare vita a una mitopoiesi in grado di trasformare la dimensione rituale delle mie performance in immagine.

Foto di Karolina Ursula Urbaniak

Pensi che possa ancora esistere, per noi occidentali, una dimensione rituale e collettiva dell’atto performativo?

La riposta è al contempo positiva e negativa. Per quanto mi riguarda, non posso che assumermi la responsabilità del performante. La dimensione sacrale nel contemporaneo è un fatto individuale, non istituzionalizzato, mentre in India c’è una dimensione istituzionale che rende la collettività tale. In un certo senso invidio questa capacità di creare ancora comunità: io ho cercato di farla mia attraverso una produzione non solipsistica, perché non vuole essere tale, ma certamente individuale. In me tuttavia persiste il tentativo indefesso di portare avanti un discorso non contrario alla razionalità, ma comunque più esoterico che razionale. Ciò significa valorizzare la dimensione estetica come forma di conoscenza, come dimensione epistemologica. Da questo punto di vista c’è ancora un messaggio per la collettività. Certo non penso di rappresentare un qualche dio o di poter essere comunità con il mio lavoro. Ma credo ci siano ancora in nuce parecchi aspetti o potenzialità nella dimensione rituale del performativo.

In conclusione, tornando alla mostra: com’è stato confrontarsi con un’attività trentennale?

Per me è stato molto formativo. È la prima volta che sono riuscito a mettere insieme lavori appartenenti a momenti diversi della mia ricerca, per altro in un volume unico. In questo caso ho creato venti apparati fatti da diversi interventi, ognuno dei quali rappresenta un momento specifico. È come se fossero venti grandi opere, anche se i lavori esposti sono in tutto quasi trecento. Nitsch ha avuto fin dal principio una grande capacità programmatica: a diciannove anni aveva scritto un testo in cui aveva sintetizzato tutto quello che avrebbe fatto nel resto della sua vita, e poi l’ha messo in atto. Invece io, nel mio lavoro, ho avuto sempre più intuizioni che comprensioni; spesso ho fatto delle cose attraversandone altre. Ciò per me è stato fondamentale perché mi ha consentito di varcare dei passaggi attraverso cui mettere in connessione mondi apparentemente distanti, almeno nella nostra concezione delle discipline. Ma le distinzioni i tra i diversi domini ricorrono a categorie prevalentemente commerciali, non necessariamente espressive. Questo allestimento ha dunque rappresentato un momento di sintesi molto importante; forse rappresenta l’avvio per un ritorno più convinto alle arti visive, rispetto alla dimensione performativa e teatrale – preponderante nell’ultimo periodo. Per la prima volta ho avuto la percezione della linearità del percorso che ho portato avanti. È stato anche un lavoro di narrazione su me stesso.

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