Intervista a Luca Tenneriello: le molteplici vite di Thomas Hobbes

8 Ottobre 2022

In occasione della recente pubblicazione per Mimesis Edizioni della “Vita di Thomas Hobbes di Malmesbury. Le due autobiografie latine” conversiamo con il curatore e traduttore di questa prima versione italiana delle autobiografie hobbesiane, Luca Tenneriello. Cultore della materia in Storia della filosofia presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia, Tenneriello è stato Visiting Researcher presso la University of Kent, nel Regno Unito. I suoi interessi spaziano dal pensiero della prima età moderna alle questioni poste dalla riflessione contemporanea sul rapporto tra religione e spazio pubblico.

Quali sono le ragioni del tuo interesse — non soltanto di natura ‘accademica’ — per Hobbes e come la fortuna di questo autore è cresciuta negli ultimi anni, coinvolgendo anche un pubblico più ampio rispetto al ristretto mondo universitario?
Si tratta — come dicevi — di un interesse personale oltre che filosofico e accademico, semplicemente perché Hobbes è un autore davvero singolare che — a differenza, per esempio di un filosofo sedentario e abitudinario come Kant — ha avuto una vita estremamente movimentata. Hobbes è stato difficilmente sempre stanziale in un luogo, tanto da essere stato costretto a trasferirsi, anche per esigenze non dovute alla sua volontà, andando in esilio volontario. Durante la Guerra Civile inglese, ad esempio, ha vissuto per undici anni a Parigi dove aveva una florida comunità di amici e intellettuali. Quindi, il mio interesse per questo filosofo è dovuto proprio a questo suo carattere poliedrico, anche alla luce del contesto culturale e dell’epoca in cui è vissuto. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’Inghilterra in cui vive Hobbes è quella del Seicento, alimentata da lotte ed eventi che, nella loro drammaticità, hanno tuttavia portato all’assetto di un’Inghilterra già in qualche modo vicina a quella odierna, in cui a spiccare è proprio il soggetto moderno. E poi, soprattutto, c’è Malmesbury — ovvero il paesino di cui Hobbes è originario —, che ho avuto il piacere di visitare in più di un’occasione e che ospita una vera e propria ‘society’ a lui dedicata. Quest’ultima si occupa del “culto” o, quantomeno, della cultura di questo importante personaggio in quanto cittadino illustre, attraverso l’organizzazione, ad esempio, di occasioni conviviali nelle quali è possibile degustare dei veri e propri menu seicenteschi.

Da cosa è scaturita l’idea di questo libro e come mai, secondo te, nonostante quella che descrivi come “un’importante opera di rilettura” dell’opera di Hobbes, le sue autobiografie (una in prosa e l’altra in versi) non sono mai state tradotte in Italia fino a questo momento?
Il libro raccoglie due autobiografie: la prima è in prosa ed è molto poco conosciuta, la seconda, invece, è in versi ed è molto nota, la cosiddetta “Vita carmine expressa”. Abbondantemente citata in letteratura, spesso e volentieri come esergo elegante per lavori su Hobbes, la “Vita carmine expressa” resta però — o per meglio dire restava fino a questo momento — una semplice citazione dall’edizione di riferimento della metà dell’Ottocento in latino. Ma durante la mia attività di ricerca mi sono reso conto che le autobiografie e, in particolare, la “Vita carmine expressa” risultava l’ultima, l’unica opera filosofica di Hobbes — perché poi è tale nonostante sia un’autobiografia — a non essere stata tradotta in italiano. Ovviamente, bisogna escludere da questo discorso i trattati di matematica e di ottica che non hanno riscosso molto interesse nell’ultimo periodo, con qualche eccezione negli anni Settanta.

Nonostante per Hobbes — come racconti nel libro — queste opere ‘scientifiche’ siano fondamentali…
Sì, sono assolutamente fondamentali, tanto che c’è questo fatto curioso per cui Hobbes, anche alla luce di queste autobiografie, vuole lasciare di sé in questa età avanzata un’immagine di matematico, di uomo di ‘scientia’ — di un filosofo naturale avrebbero detto all’epoca — e non di un filosofo politico o di uno storico della politica. Al punto che forse l’esperienza del “Leviatano” (che è il suo capolavoro) insieme al “De cive” sembrano quasi una parentesi della prima maturità, ormai in qualche modo superata.

Per ragioni politiche legate alla censura o per un cambio d’interessi da parte di Hobbes?
Credo sia per l’una che per l’altra ragione. Hobbes, pur non essendo certamente un adulatore del governante di turno, è sempre stato molto attento al clima politico circostante e oculato nelle sue scelte editoriali, anche a seconda delle forze politiche che vigevano al momento ma, nonostante tutto, si è ‘conquistato’ un esilio. C’è però anche una motivazione se vogliamo politica al fondo di questa scelta, perché negli anni della sua vecchiaia era cambiato il regime e quindi ci si era lasciati alle spalle l’esperienza repubblicana di Cromwell, fitta di umori e sentimenti politici.
Tra l’altro un elemento cui prestare attenzione è il fatto che, una volta restaurato il sovrano, ovvero Carlo II, Hobbes riceve una pensione vitalizia tanto che è forse anche per questa ragione che non vuole più mettere bocca sulla politica, perché ormai il sovrano c’è, l’ordine monarchico, che reputava la forma più efficiente di governo, è stato restaurato e ritiene di non doversi più occupare di questioni politiche, poiché il problema politico é stato di fatto ‘risolto’. E dunque da qui l’interesse e la grande produzione nelle discipline scientifiche, nella filosofia naturale.

Ma Hobbes ha anche uno spiccato interesse per la poesia, in particolare quella greca.
L’interesse per la poesia è veramente antico in Hobbes. A quattordici anni traduce la “Medea” di Euripide e conclude la sua vita — passando per la “Vita carmine expressa” e, quindi, per la sua autobiografia — traducendo l’Iliade e l’Odissea. Quindi, l’amore adolescenziale per il classico ritorna nella forma delle traduzioni di Omero, considerando che l’elemento di piacere personale è molto presente nella produzione in versi di Hobbes, al punto che egli aveva lasciato precise istruzioni riguardo la “Vita carmine expressa”, affinché non venisse mai pubblicata, dato che l’opera non era stata scritta in una maniera ottimale dal punto di vista grammaticale e per questo non voleva esporsi alla pubblicazione. Un’opera in versi scritta quindi per puro diletto personale – lo dice proprio lui stesso nelle indicazione a margine della “Vita carmine expressa”. Come sappiamo bene, però, dopo la sua morte le carte personali hanno preso una direzione diversa. C’è anche un aneddoto in proposito. Un mese dopo la morte di Hobbes il suo stampatore era entrato in possesso di questo manoscritto con delle cancellature, delle esitazioni e delle contrazioni nell’ortografia latina, ma decide di darlo ugualmente alle stampe in un’edizione non autorizzata con il solo sicuro intento di un ritorno commerciale, attirandosi, ovviamente, le ire degli allievi di Hobbes o, per meglio dire, della sua cerchia di amici più giovani.

Quali sono le ragioni profonde che animano l’attenzione straordinaria che Hobbes rivolge all’antico e, più in generale, alla storia? Si tratta di una spiccata propensione per la filologia o possiamo parlare di un vero e proprio gesto filosofico e, ancor di più, etico?
Tutte queste motivazioni sono a mio avviso collegate e credo si possano rintracciare proprio nella sua formazione giovanile. Hobbes studia a Oxford nel Magdalen Hall College, formandosi sui curricula tradizionali di ogni studente di inizio Seicento. Una formazione ‘elisabettiana’ — come la definisce Quentin Skinner — e, quindi, per dirla con Strauss, alla sua formazione umanistica si lega anche l’interesse per la storia e per la storiografia. Il grande personaggio che catalizza tutto questo moto d’interesse è Tucidide, di cui traduce la “Guerra del Peloponneso”, traduzione che ha valenza d’esperienza umanistica, classica, nella quale però Hobbes racconta anche l’interesse per la storia e per la storiografia come fonte di insegnamento per il presente. Quindi, l’ideale classico romano della ‘historia magistra’ ritorna in Hobbes in una maniera molto dirompente, perché anche quella del Peloponneso è, a suo modo, una guerra civile, poiché ritornano qui alcuni dei temi che Hobbes rivede nel clima delicato e culturalmente critico dell’Inghilterra della fine degli anni Venti. L’interesse per la storia quindi non è soltanto un interesse da salotto, ma un interesse utile, pratico. Questo aspetto è molto chiaro in Hobbes: il suo pensiero, la sua filosofia morale e politica sono sempre rivolte a un pubblico di persone impegnate e occupate all’interno della società in cui vivono.

Che differenza esiste tra questo genere di umanismo seicentesco, per come lo vive Hobbes, e quello, invece, tipicamente italiano – e se vogliamo ‘continentale – anche alla luce del tuo libro “Leone X e lo Studium Urbis. Fondazione, evoluzione e riforme della prima università romana“?
Senz’altro una grande differenza. Anzitutto abbiamo cento anni di distanza, ma la vera domanda è: cosa è successo in questo secolo? Il recupero del classico nel modo in cui lo avevano inteso gli ‘umanisti della prima ora’, ovvero in quanto recupero spesso e volentieri artistico dei canoni della classicità (non solo dal punto di vista stilistico-letterario ma anche a livello figurativo) diventa nel Seicento un affare politicamente connotato. Una faccenda che viene a essere politicamente decisiva e dove la ripresa delle tematiche classiche viene resa autonoma dal mero compiacimento estetico, transitando in qualche modo nella sfera dell’utile della società. Diventa così un tesoro non più appannaggio di pochi eruditi ma anche di un pubblico più vasto, ovviamente per quanto potesse essere vasto un pubblico di lettori nel Seicento. Hobbes è, peraltro, un autore che scrive in latino ma che non disdegna affatto la sua lingua madre, l’inglese, tanto che arriva a dirlo anche in una delle sue autobiografie.

“Leone X e lo Studium Urbis. Fondazione, evoluzione e riforme” di Luca Tenneriello

Veniamo ora al tema della paura. Un sentimento drammaticamente attuale che non solo attraversa la riflessione ma — emblematicamente — la nascita e la vita di Hobbes. Quali indicazioni possiamo trarre rispetto alla pericolosa situazione in cui versa oggi l’Europa — dal punto di vista militare e non solo — dalla produzione hobbesiana?
Evidentemente la paura è il tema — o quantomeno uno dei temi più importanti — in Hobbes, che ritorna infatti in maniera importante in praticamente tutto il suo pensiero. Una paura della morte violenta — e non semplicemente di morire a ottant’anni di vecchiaia, né una paura esistenzialistica secondo la connotazione novecentesca del termine —, in particolare, la paura di morire in maniera violenta per mano di altri. Siamo con Hobbes in un clima di guerra civile, dove la violenza è ai massimi livelli ed ecco che quindi il suo obiettivo diventa quello di fondare e garantire un sistema politico che possa assicurare la pace. La pace è il miglior modo per eliminare questa paura della morte violenta, perché uno Stato che ti garantisca delle sufficienti condizioni di sicurezza personale è quindi in grado di tenere a bada questa passione, nonostante quest’ultima non possa mai essere del tutto estinta. Ma la paura è anche paura della guerra, che oggi sappiamo bene, purtroppo, essere una condizione che affligge una parte del mondo.

Esiste una differenza sostanziale tra questo concetto di pace e quello più contemporaneo di pacifismo?
Diciamo che se Hobbes è il teorico della pace non possiamo definirlo il teorico del pacifismo, inteso come movimento. Tuttavia, l’idea che possiamo mutuare e veicolare da Hobbes è proprio questo sostrato culturale che invita all’accordo, al venirsi incontro. Ritorna, se vogliamo, la presa di coscienza di essere degli individui passionali, tanto che è lo stesso sistema politico a essere costruito a partire da un’analisi meticolosa di come funziona l’essere umano nei suoi impeti, nelle sue pulsioni. Quindi senz’altro la via della pace deve fare i conti con l’essere limitati e passionali, in quanto individui impulsivi. Ma soltanto riconoscendo la propria finitezza nella possibilità di essere preda della violenza dell’altro che possiamo gettare le basi per la pace e aprirci alla possibilità dell’accordo, cioè a rinunciare a qualcosa in cambio di un bene superiore, ovvero la pace.

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