Tra gennaio e febbraio si è tenuta presso Villa Zito, pinacoteca della Fondazione Sicilia a Palermo, la mostra Cesare Viel. Corpi estranei/Toccare un tesoro, a cura di Elisa Fulco e Giulia Ingarao. Si tratta dell’ultima tappa del più ampio progetto Corpi Estranei, ideato dalle stesse curatrici e Antonio Leone, vincitore della decima edizione del bando Italian Council. L’esposizione, promossa dall’associazione Ruber.contemporanea, ha visto il coinvolgimento di una fitta rete di partner nazionali e internazionali: Fondazione Pietro e Alberto Rossini, e ancora l’Università, la Facoltà di Belle Arti e il Centre Pompidou di Málaga, la Colleccion Museo Ruso, la Fondazione Sicilia di Palermo.
Quella di Corpi Estranei è una proposta trasversale, comprensiva di workshop, performance e azioni utili a indicare “nuovi modelli di produzione artistica”. Nella sua sede palermitana, l’intervento di Viel ha dialogato con le opere della permanente (tra gli altri, sono esposti paesaggi di Tosi, De Pisis, Carrà) e, ovviamente, con l’osservatore, immerso in un’atmosfera densa di differenti stimoli sensoriali, sia visivi sia acustici. Un “progetto di sistema”, si legge sulla nota stampa, “incentrato sull’attivazione di processi relazionali e scambio di buone prassi fra tutti gli attori” e le attrici coinvolte. È proprio a partire da questo punto che avviamo il nostro dialogo con l’artista, raggiunto al telefono: «Per me è fondamentale lavorare all’interno di una rete di collaborazioni. Mi sono formato tra gli anni Ottanta e i Novanta, assieme a personalità come Luca Vitone, Eva Marisaldi, Liliana Moro. Abbiamo lavorato individualmente, certo, ma abbiamo creduto fin da subito nella condivisione delle esperienze».
Lavorare in comunità, nel periodo storico a cui Viel si riferisce, implicava anzitutto il ripensamento di modi differenti da quelli della precedente generazione, fautrice di una cultura che, nel fare sistema, ha esaurito in fondo ogni possibilità di dialettica interna: «Per noi invece era fondamentale lo scambio di idee e pratiche basate sul confronto e sul desiderio di entrare in contatto anche con l’alterità e la differenza. Si trattava di dare vita a un laboratorio sociale non ideologico, ma comunque politico: creare insomma una dimensione collaborativa sulla quale sono tornato nel primo decennio del Duemila».
“Relazione” appare fin da subito come una parola chiave all’interno della nostra conversazione, e si estende senza difficoltà anche a Corpi Estranei. Relazione tra persone – l’artista, le curatrici, i creativi e le creative coinvolte, anzitutto; ma anche tra i luoghi attraversati e le opere umane qui ospitate. Villa Zito si è offerto a Viel come un contenitore che in qualche modo poteva essere risemantizzato: «Durante il sopralluogo, ho visto come le stanze dedicate all’arte del Novecento erano dotate di una presenza architettonica propria, ed era inevitabile, ricca di segni. Anche qui era necessario lavorare sulla relazione. Ho rifiutato la rimozione, cercando di togliere il meno possibile. Così, le opere già presenti hanno potenziato il progetto: alcuni quadri, come per magia, sono entrati in dialogo in modo davvero imprevisto con i miei interventi. Era come se le mie opere e quelle della collezione fossero legate da una somiglianza di famiglia, per citare Wittgenstein, al di là della distanza cronologica».
Con il filosofo Viel ha avuto certo modo di confrontarsi (ad esempio in Gropius-Wittgenstein, in Performance-Architecture, a cura di Barbara Fassler e Domenico Lucchini, Teatro San Materno, Ascona, 2015). L’indagine linguistica è un dato decisivo all’interno della sua ricerca, la cui impostazione è di dichiarata matrice neo-concettuale. L’idea per cui differenti materiali possano essere classificati in categorie comuni sulla base di reciproche somiglianze è un fatto esperibile anche a Villa Zito: sono la parola e i suoi possibili significati a svolgere una mediazione nell’eterogeneo. Sul pavimento di una sala giace Corpo estraneo. Toccare un tesoro: un tappeto rosso, sul quale la frase del titolo – citazione a Emily Dickinson – spicca in oro. Il tappeto è stato tessuto in Iran da artigiani locali, con tutte le difficoltà legate alle attuali condizioni politiche: la sua creazione diviene atto condiviso nel quale la parola poetica diviene non solo corpo (come accade in Dickinson, appunto), ma restituzione di un gesto performativo agito da più soggetti. Processo conoscitivo e atto creativo collettivo coincidono: «Parte emozionale e parte intellettiva si prendono per mano – dice Viel – somiglianze percettive e concettuali stabiliscono le regole di un gioco aperto».
Nelle sale di Villa Zito, tra i paesaggi di Sironi e De Pisis, sono situati i disegni dei Massi da scogliera (2021) di Viel, raffigurazioni lineari di profili rocciosi cromaticamente connotati, mentre sul pavimento le frasi manoscritte su carta di Un punto del mondo, si insinuano nel delicato rapporto tra l’individuo, l’identità e la sua collocazione fisica/politica all’interno dello spazio. Come in One and Three Chairs di Kosuth (1965), una medesima idea viene dunque declinata attraverso più media, ma in questo caso si tratta di un dialogo non chiuso, il cui fulcro è nella rappresentazione del paesaggio: «l’aspetto della geografia è molto importante. Lavoro sul paesaggio dal 2015, e lo intendo in senso sia fisico che mentale. Indagare il paesaggio corrisponde non soltanto a percepire lo spazio, ma la spazialità. È come se prima guardassi all’oggetto da vicino, mentre adesso in modo più panoramico. Considero anche il contesto, adotto un pensiero laterale». Ciò consente, ancora una volta, l’apertura all’altro, perché uno sguardo più ampio può includere più presenze. «Paesaggio è sfumare nell’altro. Non sono solo io; nel paesaggio può entrare chiunque». Da qui la scelta del titolo: «Siamo tutti corpi estranei. Ma nonostante questo, possiamo convivere».