Di terra, mare e simboli. Intervista all’artista Anne Clémence de Grolée

27 Aprile 2023
Anne Clémence de Grolée, Parole di filo, da Cortile/curtiggiu, Favara, Farm Cultural Park, 2011/12 http://www.degrolee.info/cortile-curtigghiu/

L’artista francese Anne Clémence de Grolée, attiva in Sicilia dalla fine degli anni ’90, è attualmente impegnata in una nuova ricerca plastica nella quale converge una ricerca decennale. Nata a Parigi, De Grolée si è laureata presso l’Ecole Régionale des Beaux-Arts di Nantes nel 1989. Dal 1994 si traferisce in Italia in seguito ad un progetto svolto a Bologna, col sostegno di una Allocation de recherche et de séjour à l’étranger del Ministère de la Culture. Lo stesso anno vince il premio del Salon Jeune Peinture (Paris). Giunge in Sicilia nel 1996, invitata dal Centro Culturale Francese come artista in residenza presso Fiumara d’Arte, progetto diffuso di land art promosso dal collezionista Antonio Presti. De Grolée, rimasta in Sicilia, ha avuto modo di affrontare i temi caratterizzanti la sua produzione: l’arcano, il femminile, il valore evocativo del simbolo e la ricerca di una ritualità condivisa. L’abbiamo intervistata per parlare della nuova fase, a partire dalla sua esperienza di artista in residenza in Italia e in particolare in Sicilia. Durante il nostro incontro, De Grolée ci mostra sempre le immagini delle sue opere perché «è vedendo, che le cose si capiscono meglio». Osservandole, ripercorriamo insieme i molti campi di indagine della sua ricerca: il femminile, il simbolo, la memoria dei luoghi. Un percorso che non mira alla linearità, ma fatto tutto di impreviste scoperte e riprese a distanza. Cominciamo dall’inizio, e dunque dal suo arrivo in Italia.

Com’è nata la decisione di spostarsi in Italia?

In generale sentivo l’esigenza di voler andare all’estero. Mi sentivo attratta dall’idea di spostarmi verso sud. Del sud Italia, in particolare, apprezzavo la sedimentazione culturale. Non so, sentivo di voler stare in Italia. Una volta arrivata nella penisola, mi sono interessata soprattutto ai musei scientifici: analizzare la natura, nelle sue forme, mi ha senz’altro indirizzato verso la rappresentazione della vita e della metamorfosi. Nel 1996 inizia la mia residenza presso Fiumara d’Arte. Qui mi sono confrontata con usanze arcaiche, di interesse antropologico; soprattutto, mi aveva colpito quella particolare commistione di cattolicesimo e paganesimo. Ai miei occhi la Sicilia era, ed è tutt’ora, un grande serbatoio di tradizioni mediterranee. È un tema che si riscontra in Anfora: la sagoma di un grande vaso, di un’anfora appunto, composta sul suolo attraverso cocci di cotto raccolti sulla spiaggia di Tusa [Messina]. L’anfora è metafora del deposito, della sedimentazione. Tutto questo appartiene a un momento iniziale, di grande entusiasmo, poi è subentrato il disincanto.

Quando è avvenuto questo cambiamento?

A partire dal 1999. Si tratta di una fase successiva, legata a un’indagine che aveva avuto luogo nelle periferie di Palermo – dove intanto mi ero trasferita. Conoscere questi luoghi mi h posto davanti a una una significativa complessità urbana. Mi sono addentrata in un un grande sistema sociologico che a tratti mi sfuggiva. Qui il mio approccio è stato più documentaristico. Gli esiti di questa ricerca sono poi confluiti nella personale Quoi de nouveau sous le soleil? presso il Centro d’arte contemporanea Bannata di Piazza Armerina [Enna]. Appartengono a questa fase fotomontaggi nei quali il degrado urbano si alterna a immagini del Ficus presente all’Orto Botanico di Palermo. L’urbanizzazione e l’albero sono accomunati da uno sviluppo incontrollabile, metamorfico, tentacolare: la loro associazione intendeva suggerire l’idea di una vitalità mortifera. Per me, originaria del nord della Francia, il concetto di “lottizzazione” aveva qualcosa di davvero incredibile. Per come la percepivo io, la lottizzazione era un fenomeno che si traduceva in una forma di contemplazione del mondo frammentata, impedita dal gesto privato, dal gesto di chi si impossessa di uno spazio.

All’atto individuale la tua ricerca tenta invece di sostituire collettività rituali, come nel corso della tua residenza alle Farm Cultural Park di Favara

A Favara sono stata nel 2011. Con il supporto dell’associazione Nicodemo ho svolto una riflessione intuitiva sulla forma caratteristica della parte antica della cittadina. Analizzando la mappa catastale abbiamo individuato in modo particolare i cortili, da cui CORTILE/CURTIGGHIU, il titolo del progetto [curtigghiu in siciliano significa “cortile”]. La parola curtigghiu è legata alla conversazione; fari curtigghiu significa infatti conversare privatamente. Il cortile era il luogo nel quale le donne potevano entrare in relazione l’una con l’altra, era un gineceo contrapposto alla piazza, all’agorà, che invece era di dominio maschile. Da estranea, ho raccolto e registrato, con l’aiuto di due collaboratori, le memorie degli anziani e delle anziane; è stata un’esperienza forte, avevano un’evidente voglia di parlare. Nell’installazione conclusiva un filo rosso attraversava lo spazio dei Settecortili, sede delle Farm. È stato un modo per riprendere, simbolicamente e praticamente, il “filo del discorso”: un filo rosso, come il sangue, perché indicativo del legame parentale, dell’unione all’interno di una collettività. Di quell’esperienza mi resta il senso di rimpianto e di nostalgia nei confronti di una forma sociale  comunitaria.

L’attività del filare poi è tradizionalmente eseguita dalle donne. Il femminile è uno dei temi ricorrenti all’interno della tua produzione.

Sì, ed è intimamente legato al tema del corpo, della genitalità e della metamorfosi. In opere come Sirene, Strange fruit e altri Capricci, Naissances/Ninfee ho isolato e rappresentato parti del corpo femminile legandole all’acqua, elemento associato alla vita e alla nascita. Rappresento un ideale arcaico, simbolico, archetipico, legato alla forza procreativa della rinascita. L’idea della procreazione, della discendenza matrilineare, ricorre anche in una mia residenza presso la Non-Maison ad Aix-en-Provence nel 2015. In questo periodo era venuta a mancare mia madre. Un evento traumatico, successivo a una malattia che aveva compromesso la sua memoria. In un certo senso, il mio lavoro alle Farm, così incentrato sull’ascolto e sul recupero dei ricordi delle persone anziane, si può intendere come conseguenza di questa esperienza personale. Durante la residenza in Provenza che, come dicevo, è stata successiva alla morte di mia madre di pochi giorni, ho approfondito ulteriormente la mia ricerca sulla figura materna. In Abiti/Spoglie avevo cucito un grando abito, semplice come un saio: a questo poi ho unito, ancora una volta con un filo rosso, abiti di dimensioni più ridotte. È simbolo del legame tra una madre-matrice e la sua discendenza, di ciò che si intende per “matrimonio” in opposizione a “patrimonio”, trasmissione di beni materiali.

Più recentemente mi sono avvicinata all’infanzia. Des enfants de la tourbiere è una serie di sculture in ceramica. [Ci mostra le immagini, sul cellulare. Teste di bambini con corna di cervo e le bocche spalancate, poggiate su un collo robusto e lungo, immerse per buona parte in un pigmento verde. È un’immagine forte, ci ricorda un parto doloroso]. Sì, certo l’immagine del parto può essere attinente. Ma in realtà queste creazioni nascono nel periodo della pandemia, quando ho avvertito il bisogno di tornare, di camminare ancora nella natura. Le torbiere non appartengono molto al paesaggio siciliano, a quello meridionale in genere. Sono più presenti nel Nord. È un lavoro ancora in svolgimento, che mi pone davanti all’impossibilità di controllare appieno il processo della cottura, a imprevisti come la frattura, per come è tipico della lavorazione della ceramica. Intanto creo. Per ora il mio laboratorio è pieno di queste sculture. Ma non riesco a vendere: non riesco a separarmi dalle mie opere. È difficile, per me.

È difficile, come fossero dei figli – mi viene da dire.

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