Italiani popolo di migranti. Una diaspora iniziata con l’Unità e pressochè mai terminata. Sacrifici di intere generazioni, che lasciando le patrie terre spesso lo hanno fatto per sempre. Tagliando ponti famigliari, gettandosi spesso nell’ignoto di una nuova vita tutta da costruire. Spesso riuscendoci, altre volte fallendo. Gente semplice delle campagne e persone acculturate che lasciano le città per altre città. Tutti insieme, sulle stesse navi, sugli stessi treni, sotto le stesse mura di abitazioni a volte dignitose, altre di fortuna.
Lo scrittore Slawomir Mrozek, nel 1974, scriveva “Emigranti”. Una drammaturgia decisa e profonda che Massimiliano Bruno e Daniele Trombetti hanno ripreso e adattato, orchestrando uno spettacolo che il pubblico romano ha assai apprezzato sul palco dell’OffOff Theatre. In cartellone dal 20 al 23 aprile, gli “Emigranti” italiani hanno il volto e la voce di Andrea Venditti e Marco Landola. Dividono gli spazi di una stamberga che attraversa un secolo di storia, tre continenti e tanti bocconi amari. Da una parte un profilo di uomo semplice che ha sì mollato la campagna laziale, ma resiste al cambiamento e vive con angoscia il distacco. Al punto da valutare concretamente il rientro a casa. Nell’altra metà della stanza, perfetto alter ego, si muove un uomo di cultura e dagli ideali rivoluzionari, ma poco propenso all’azione.
A snocciolare i quadri temporali del racconto sono le apparizioni, su un balconcino laterale, di Francesca Anna Bellucci, nel ruolo di una donna che invece è rimasta, al paese, e legge le lettere che arrivano ora dall’Argentina, poi dagli States, infine dalla Germania. Missive che sono strumento unico – didascalico ed etnografico – per raccontare vissuti ed esprimere sentimenti, con tutti i limiti dettati dalla sensibilità e dal livello di istruzione, dei mittenti quanto del destinatario.
Bellucci è versatile ed estremamente espressiva, ricorda da vicino certi personaggi della cinematografia neorealista. Pregevole la cura per i suoi costumi.
La regia di Bruno pone l’accento sulla varietà dei vissuti, rispetto alla scelta di abbandonare le radici. Apre il fronte delle riflessioni a differenti spunti: è giusto lasciare la propria terra, la famiglia e gli affetti? Può la realizzazione economica essere una leva accettabile rispetto a ciò che si perde? Possono tutti indistintamente partire, o è meglio preparare un piano? I dialoghi tra i due coinquilini rivelano distanze sociali e pregiudizi che però possono crollare di fronte alla prova della sopravvivenza.