A naso mi sa che ho un brutto rapporto con il Premio Strega.
Dico “a naso” perché non ho così tante prove a supporto di questa mia sensazione per poterne fare una verità scientifica, ma tra 2 degli ultimi 3 vincitori – “Spatriati” di Mario Desiati e quest’ultimo di Donatella Di Pietrantonio appena proclamato vincitore – e un finalista degli anni passati – “Febbre” di Jonathan Bazzi – temo di non essere il lettore ideale dei libri che ogni volta concorrono al premio letterario italiano più importante
(Ad onore del vero ho amato moltissimo e letto due volte “Il Colibrì di Sandro Veronesi che si è aggiudicato la bottiglia del famoso liquore nel 2020)
Ad ogni modo credo dovrò fare un mio personalissimo viaggio almeno tra i libri che hanno raggiunto la cinquina negli ultimi 10 anni per poter provare a chiarire questo mio rapporto con questa “istituzione” letteraria, magari cominciando dai 6 ( 5 + il vincitore del quale, per l’appunto scrivo adesso) che ieri hanno animato la serata svoltasi, come sempre, al Ninfeo di Villa Giulia in quel di Roma.
E allora, dopo questa lunga premessa, io comincerei ricondividendo quello che il 31 gennaio 2024 su una pagina social di mia creazione – L’incompetente – scrivevo a proposito del libro che è stato nominato dal club de “Gli Amici della Domenica” il migliore della stagione editoriale che può dirsi ormai conclusa.
All’epoca era tantissimo tempo che non condividevo una mia impressione culturale su un libro e il perché era presto detto: era tantissimo tempo che non leggevo un libro.
E vi prego di accogliere questa confessione a cuore aperto con un pizzico di comprensione perché vi garantisco che non è semplice da scrivere né per lo stigma che di solito faccio accompagnare a questa stessa dichiarazione né per la consapevolezza che ho trascurato per moltissimo tempo quella che per me è una delle più importanti attività umane.
Ad ogni modo, ogni volta che riallaccio il discorso “lettura” quello che di solito, naturalmente, faccio è
relazionarmi con una storia “semplice”.
O almeno con una storia che mi sembra possa esserlo in relazione al mio portato di lettore mediamente intelligente e non troppo impegnato.
Partendo quindi da questi presupposti, di solito, scelgo titoli appena pubblicati, di autori coevi, dei quali ho già letto qualcosa che mi è molto piaciuto.
Ma proprio molto, eh.
Ed è così, dunque, che sono arrivato all’acquisto e all’immersione nella storia di “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio, della quale un po’ di tempo prima avevo amato parecchio “L’ Arminuta” e con la quale, dunque, ritenevo di avere un piacevolissimo conto in sospeso da pagare, dato che non avevo mai trovato né il tempo né, evidentemente, la voglia di leggere quel “Borgo Sud” che rappresenta il seguito dello stesso bellissimo libro appena citato della scrittrice abruzzese.
Quindi, dopo un lungo e lento girovagare tra altri titoli non portati a termine – senza giudizio sulle stesse opere, sia chiaro – della stessa Di Pietrantonio e di altri scrittori e scrittrici, a Natale avevo acquistato il titolo di cui mi appresto a parlare.
E niente: “L’età fragile” – Einaudi, 2023 – è a mio avviso un libro un tantinello mogio, impastato dalla solita, pregevole, sensibilità e competenza della propria “madre”, ma in cui impera, sopra ogni altro aspetto – almeno per quello che mi è stato dato in sorte di provare – una rassegnazione matura di fronte alle 3 possibili dimensioni temporali della vita e ossia il passato, il presente e il futuro.
Non posso affermare in alcun modo e in nessun caso che il suddetto libro sia un brutto libro, ma, magari, partendo dal dato emozionale che uno dei suoi precedenti mi aveva provocato – sempre
“L’ Arminuta” già citato – posso dirmi non tanto deluso, quanto poco coinvolto.
“L’età fragile” mi sembra muoversi blandamente tra due faccende apparentemente distinte – un fatto di cronaca precedente diversi anni la narrazione del presente e la stessa descrizione di quanto accade nell’oggi letterario – che, pur intrecciandosi in una dinamica chiara, non aguzza mai i sensi e le corde dei lettori.
O del lettore, in questo caso.
Il libro che narra le vicende di un luogo – Il Dente del Lupo – di una madre, di una figlia e di una piccola comunità di una montagna che forse non è tale abbastanza, pur conservandone asperità ed aspirazioni, trasla nelle parole e nelle costruzioni sintattiche quel ritmo dittatoriale dei luoghi della natura che ambiscono ad essere almeno un po’ impervi, ma, mi pare, manca di tutto un sostrato emotivo che richiami veramente la tragedia che mira a raccontare e cioè quello delle esistenze che vanno avanti sempre e comunque, a dispetto dei delitti e delle disgrazie.
Delle cattiverie comportamentali volute o no, dei rapporti familiari affogati nelle incomprensioni che nascono nei silenzi a volte arroganti e a volte di mera paura dei figli e delle madri, dei padri e degli amici.
Vabbè, avrete capito – almeno chi si è spinto fino a qua – che avrei sperato in meglio.
Chissà che, comunque, alla fine, il problema del libro non risieda esclusivamente negli occhi e nel cuore di chi lo ha letto, ossia in quel Giuseppe Menzo incompetente che scrive.
Speriamo che qualcuno mi sappia dare risposta.
Nel frattempo buona lettura, qualunque libro voi scegliate o abbiate in corso d’opera in questi caldi giorni che sono e continuano a prospettarsi nell’estate che stiamo vivendo.
In attesa di parlare degli altri cinque finalisti di questa edizione e, magari, di provare a dare un’evidenza meno emotiva e più empirica alla premessa che ha aperto questo articolo.