Testo di Emiliano Metalli
Una Turandot che non lascia indifferenti, questo è certo, quella allestita per il Teatro dell’Opera di Roma dall’artista Ai Weiwei con la collaborazione di Peter van Praet per il disegno luci e Chiang Ching per i movimenti coreografici. Entrambi, però, inghiottiti dalla presenza costante del regista che ha firmato, inoltre, scene, costumi e video.
Rimandata due volte a causa della Pandemia, oggi quest’opera approda finalmente in palcoscenico. Una Turandot più emanazione del regista-artista che creazione del compositore. Manca, infatti, azione in senso drammaturgico in questo spettacolo che è un immenso assieme di simbologie e di collegamenti a mondi extraoperistici veicolati soprattutto attraverso l’elemento visivo, unico mezzo privilegiato a discapito di tutti gli altri linguaggi. La staticità dei corpi, siano essi interpreti o masse corali, infatti, è il prezzo da pagare per un concept registico dal taglio politico, intellettualistico e fortemente contemporaneo che si impossessa di alcuni frammenti testuali del libretto declinandoli in maniera ossessiva, certamente accentratrice. Se l’elemento registico è, negli ultimi anni almeno, croce e delizia delle recensioni operistiche un motivo c’è, come già evidenziato nell’articolo La regia non esiste: esistono i registi! In questo articolo, partendo da un saggio di Gerardo Guccini, si arriva a inquadrare l’attuale approccio performativo in un aspetto più di arricchimento che di svilimento per l’opera in musica. Resta il fatto però che alcuni allestimenti, forse, si spingono oltre, valicando un confine che si fatica a comprendere e ad accettare, non tanto per la forza del messaggio – che in questo caso sembrerebbe, almeno all’inizio, abbastanza efficace – quanto per lo sfruttamento di una composizione con finalità differenti rispetto al genere stesso per cui è stata concepita. Ecco perché, in fondo, questo spettacolo appartiene più a Ai Weiwei che a Puccini.
Descriverla sarebbe quasi riduttivo. Il flusso di immagini a cui il pubblico è sottoposto fa pensare alla terapia riabilitativa di Arancia meccanica, ma non si può negare che alcune di esse contengano un forte legame con quanto sarebbe dovuto avvenire in scena. Sarebbe dovuto, ma non è così. Il guaio infatti è che in scena non accade nulla: tutti cantano immobili, in una sorta di versione concerto. Neppure Chiang Ching con i suoi movimenti coreografici riesce a catturare l’attenzione dallo schermo-fondale. Persino la struttura scenica, che avrebbe di per sé un certo appeal alla Dune o Star Wars, resta inutilizzata, tutti la “abitano” in maniera imbarazzata, indecisa, quando non costrittiva. Anche questo sarebbe un limite relativo, se il messaggio di fondo dell’artista arrivasse chiaro, potente e indiscutibile. Proseguendo nella vicenda, però, questo messaggio tende a ripetersi e a farsi sempre più rarefatto, sempre più autoreferenziato. È indubbio che un artista del calibro di Ai Weiwei non può prescindere, approcciando anche una regia operistica, dal portare con sé tutto il suo percorso. Ma un conto è attingere alle proprie esperienze, un altro è seppellire in esse l’opera pucciniana. Se, infine, lo scopo era quello di infondere un senso di instabilità e spaesamento nel pubblico – lo stesso dei migranti politici come Calaf, o della lunga serie dei principi innamorati, o delle tre maschere di fronte al cambiamento dinastico o infine della stessa Turandot di fronte alla sconfitta – allora il finale ha colto nel segno. La musica di Puccini, infatti, annega letteralmente nei video disturbanti dei barconi con migranti-manga-ellenistici e soldati-guerrieri-minoici in una trasformazione continua che azzera ogni sentimentalismo o partecipazione emotiva per la morte di Liù.
Con questo non si vuole distruggere l’operazione proposta dal Teatro dell’Opera di Roma, quanto piuttosto interrogarsi sulle opportunità di rinnovamento del genere stesso e sul rischio che si corre nell’incontro fra mondi diversi e, forse, scopi differenti. Ai Weiwei aveva intenzione di creare un allestimento per l’opera pucciniana o utilizzare la Turandot per raccontare al pubblico operistico la sua parabola politica, etica e artistica? Quale limite va posto – se va posto! – fra inventiva registica e rispetto della volontà autoriale? Se tale limite è valicato, è possibile tornare in seno a una tradizione scenica senza perdere quanto conquistato? O anche un’operazione di “ritorno” andrebbe valutata in termini di recupero critico? La partita resta aperta e, certamente, il gradimento del pubblico – che ha applaudito con convinzione – resta un importante parametro di misura del successo dell’operazione.
Dell’ultima opera di Giacomo Puccini resta, comunque, il fronte musicale e non è poca cosa. Orchestra e coro si sono adeguati alle indicazioni della direttrice Oksana Lyniv, che ha su carta molte frecce al suo arco. Non tutte vengono spese per dare morbidezza alle arcate melodiche pucciniane, la sua lettura predilige una chiarezza timbrica che spesso spezza le sezioni e fa perdere sensualità e trasporto. A questo si aggiunga che alcune scelte dinamiche o ritmiche esulano dalla tradizione, amplificando il senso di spaesamento su cui l’allestimento ha insistito. Capita così che, a fronte dell’assenza di azione scenica, si avesse l’impressione anche della mancanza di un’azione musicale: le frasi drammatiche cadono in un magma sonoro, senza approdare a una interazione fra le diverse anime del dramma. A farne le spese sono i brani più noti che, pur emozionando il grande pubblico, restano privi di una lettura personale, un marchio di fabbrica da associare al nome di questa promettente direttrice, prima donna a dirigere al Festival di Bayreuth nonché prima direttrice musicale del Teatro Comunale di Bologna.
Sul capitolo vocale, poi, c’è poco da aggiungere. Stretti fra un allestimento che ingabbia e una direzione che inquadra, tutti gli interpreti cercano di farsi spazio con i mezzi a disposizione. Ewa Vesin è certamente una Turandot dalla voce lirica e dal fraseggio infuocato, porta a termine il ruolo (e non è poca cosa per questa parte così difficile!) senza fallo, a parte qualche acuto lanciato oltre il controllo attento che invece si nota altrove. L’immobilità impostale va a vantaggio dell’emissione e, quindi, del ruolo nel suo complesso.
Accanto a lei Angelo Villari è un Calaf dal bel timbro brunito, che affronta con qualche incertezza gli acuti estremi, forse a causa di un registro centrale troppo ampio. Resta tuttavia una prova superata con sufficienza piena, un risultato mai scontato per il Principe ignoto.
Adriana Ferfecka accarezza Liù con tutta la dolcezza che le è possibile, cercando di attardarsi sulle pause di tradizione per creare un poco di effetto, ma senza supporto orchestrale. Buono, ma non paradigmatico, anche il Timur di Marco Spotti cui non viene concesso mai un momento di attenzione da parte della regia. Da talento scenico quale ha dimostrato in Wurm della Luisa Miller, è troppo limitato forse nella parte di Timur. Insufficienti Ping, Pang e Pong – nell’ordine Alessio Verna, Enrico Iviglia e Pietro Picone – che non solo non rendono lo spirito dei tre personaggi, ma vengono inoltre sovrastati dall’orchestra, in troppi momenti, tanto da impedirne persino l’ascolto delle voci, senza parlare di fraseggio. Interessanti, invece, il Mandarino di Andrii Ganchuk e l’Imperatore Altoum di Rodrigo Ortiz proprio per la qualità timbrica.