L’attore come strumento di verità. A tu per tu con l’attore Raffaele Esposito

25 Maggio 2022

Ma davvero sublime è il calare del sipario e quello che si vede ancora nella bassa fessura: ecco, qui una mano si affretta a prendere un fiore, là un’altra afferra la spada abbandonata. Solo allora una terza, invisibile, fa il suo dovere e mi stringe alla gola.

Fare l’attore è un mestiere “necessario”, dotato di una forte componente morale, investito di un ruolo e una rilevanza sociale troppo spesso dimenticata o sottovalutata. L’ attore è un moderno demiurgo in grado di attuare un processo di scoperta e autoanalisi grazie alle parole che pronuncia, le quali possono insinuarsi nello spettatore aprendogli scenari, punti di vista, portarlo a nuove scoperte o consapevolezze. L’attore può condurre in un itinerario verso la verità. Questo, e non solo, il significato dell’essere attore per Raffaele Esposito, attore, regista, allievo di Luca Ronconi, Premio Ubu under 30 nel 2007, tra i protagonisti di “M-Il Figlio del Secolo” e della prima stagione della serie di successo “Doc-Nelle tue mani”.

Un interprete che ha vissuto e vive pienamente la scena e il palcoscenico, che crede nel valore e nella funzione del teatro, nel sano e prezioso rapporto con il pubblico, nell’incontro con i personaggi che sono prima di tutto persone.

È con lui che mi sono soffermata in questo secondo appuntamento della nostra rubrica “Impressioni attoriali”, in un dialogo serrato in cui a guidarci è stato il mestiere dell’attore, il teatro, la riflessione sulla sua condizione, su cosa dovrebbe essere, il ricordo di grandi maestri e le speranze per un futuro migliore partendo dalla consapevolezza che la scena è uno strumento per comprendere noi stessi e ciò che ci circonda, e gli attori strumenti, che se si lasciano andare alla parte più vera e profonda di se, possono condurci per mano mostrandoci la nostra realtà. Perché il teatro si nutre di una cosa meravigliosa e inesplorata che è l’essere umano.

Cosa rappresenta per te la scena?

Ammiro moltissimo gli attori e chi sceglie di svolgere questo mestiere in maniera appropriata, con enorme generosità, con la consapevolezza che devi dare più di quanto riceverai. Bisogna fare pace con questa idea, tipica di tutti i mestieri artistici. Il mestiere dell’attore è un’attività in deficit costante. Sono 35 anni che vivo il palcoscenico: mio padre faceva parte di una filodrammatica e quasi mi ricattava, mi trascinava in scena. Ho preso parte al mio primo spettacolo a 9 anni. Esistono, secondo me, due categorie di attori, quelli che cercano nel palcoscenico un luogo in cui avere la conferma di ciò che vorrebbero essere e chi, invece, lo utilizza per cercare di capire chi è, tutte le sere. Credo che la mia professione sia in disuso e abbandonata . Raramente si riesce a svolgere questo mestiere appieno, che per me vuol dire  risolversi in un atto creativo difronte a un pubblico, avere il coraggio di farlo.

Qual è il tuo rapporto con il pubblico? Che rapporto bisognerebbe avere con gli spettatori?

Se il teatro continua a fare le elemosina al cinema e alla tv, va su un binario morto, è destinato a estinguersi. Quella relazione tra pubblico e spettatore che si attua a teatro è unica.  Si crea una comunità che a sua volta crea un atto, al cinema questo non avviene. C’è un aspetto rituale, funzionale, è una questione fisiologica. Il teatro ha bisogno di un pubblico disposto e predisposto. Se vuoi parlare alla parte intima di un essere umano, se le emozioni vogliono essere concrete e profonde, non puoi sommare dei filtri, devi toglierli. C’è bisogno di competenza, generosità e di un pubblico con una predisposizione adeguata, non si può avere l’atteggiamento passivo di chi guarda un film. L’attore pronuncia una parola, la parola fa un viaggio all’interno della persona che la ascolta e permette a quelle parole di ricostruire un’immagine che è sua. Ognuno ne trae un suo atto creativo, ogni spettatore attua un’operazione creativa, poiché la predisposizione d’animo è differente. Il teatro nasce per permettere alle persone di risolvere dei dissidi interiori, non esisteva la psicanalisi quando è nato, e le persone si auto analizzavano. 

Il teatro insegna i meccanismi della vita, esci dal teatro cambiato….se lo spettacolo è riuscito!

Compito di un artista è sentire sottotraccia cosa c’è nella società. Come si dice in “M- Il figlio del Secolo”,  viviamo in un momento in cui certe cose tornano.

Ti abbiamo visto appunto ultimamente in M-Il Figlio del Secolo con la regia di Massimo Popolizio, nel ruolo di un commovente Giacomo Matteotti… Sei forse uno dei pochi eroi positivi di uno spettacolo che si presenta come un kolossal… un lavoro corale dal quale emergi per l’umanità con il quale hai caratterizzato il personaggio, emergi per la forte sensibilità che gli hai conferito….Com’è stato lavorare ad uno spettacolo del genere e portare in scena la Storia? E in più lavorare con Popolizio, erede registi o di Ronconi ? Che percorso avete fatto per la costruzione dello spettacolo e del personaggio?

Massimo Popolizio lo conosco da tanto, ho lavorato con lui in 16 spettacoli, siamo come fratelli, è un fratello maggiore. Avevo tuttavia non poche preoccupazioni per questo spettacolo, invece è stata una luna di miele. Dal punto di vista attoriale abbiamo lo stesso dna, dal punto di vista teatrale crediamo negli stessi valori, nella stessa funzione e nello stesso rigore estremo. L’approccio fanatico che mi contraddistingue è una cosa che ci unisce immediatamente. È stata una collaborazione fantastica, abbiamo parlato un linguaggio cifrato senza neanche dirci esattamente le cose, avendo un alfabeto comune. Anche umanamente abbiamo punti di assonanza, recitare è stato per me come suonare del jazz. Tutto ciò che faccio nello spettacolo viene da una riflessione fatta con Massimo, mi sento di dividere con lui il risultato. L’interpretazione è costruita come un iceberg: quello si vede è una punta, sotto c’è un mondo. In questo caso l’adesione da un punto di vista emotivo e politico è stata totale. Ho interpretato un personaggio che ho ricostruito dal punto di vista storico. Matteotti per molti di noi è una via, una piazza, anche io non conoscevo il personaggio storico. Abbiamo una memoria verbale, spesso l’inconscio collettivo è segnato da alcune esperienze comuni che hanno fatto la storia del nostro paese. In “M” si sorride anche, è un cabaret, un’idea coraggiosa di Massimo Popolizio, ne ha tratto un’opera brechtiana. Mussolini ha aspetti con cui empatizzi, nonostante sia un personaggio negativo. Ti capita di incontrare persone, non personaggi, questo è fondamentale: noi attori interpretiamo persone. Alcuni momenti di commozione sono nati perché pensavo quanto fossi insignificante nei confronti di Matteotti, che mi fa pensare a eroi moderni, a personaggi più vicini, che ti permettono quel tipo di rincorsa umana che un attore deve fare. È stato facile immedesimarsi, poiché il riferimento emotivo di confronto è stato straordinario.

Sei stato allievo di Ronconi… credo che abbia avuto un ruolo fondamentale nella tua formazione e nella tua vita, professionale e umana. L’ultimo maestro…Che maestro e’ stato? Cosa ti porti dietro e in che modo riesci a far continuare a vivere il maestro attraverso la tua arte? Come l’hai fatta tua?

Credo che il compito di un allievo sia quello di assumere ed elaborare, esattamente come accade tra attore e spettatore, così accade tra maestro e allievo. Ho lavorato con Peter Stein, Declan Donnelland, registi significativi e non puoi non attuare un processo di digestione di una lezione. La lezione di Luca Ronconi, Massimo Popolizio la porta in una direzione, io in un’altra. Nello spettacolo ho un linguaggio scenico che quasi si discosta dagli altri, anche dal punto di vista tecnico è più semplice, più elementare. È una scelta registica, Popolizio mi ha chiesto di lavorare per sottrazione per far emergere ancora di più l’umanità del personaggio.

Hai vissuto anche quell’oasi artistica che definirei mistica di Santa Cristina… ti va di raccontarci quella esperienza? Un aneddoto?

Ho accompagnato Luca nel 2003 in un viaggio in Africa e poi siamo andati in Senegal, perché voleva realizzare li una struttura simile. Quando siamo tornati, mi raccontò che aveva trovato un’inserzione per la vendita di un terreno a Santa Cristina. Nel 2004 abbiamo fatto il primo corso di perfezionamento, appoggiandoci in vari teatri, poi ci spostammo l’anno successivo in questa nuova struttura. Provammo gli spettacoli per le Olimpiadi di Torino tutta l’estate. È stata un’esperienza che oggi in Italia non si può più fare, mancano proprio le personalità. Il mondo dello spettacolo dal vivo non innaffia, è quindi difficile che spunteranno nuove grandi personalità. Il materiale umano non fa ben sperare tra le giovani generazioni, però sicuramente tra quei ragazzi c’è del talento e bisogna aiutarlo e farlo uscire fuori. Non c’è trasmissione della tradizione attoriale, che è un valore che abbiamo imparato e che ora si sta perdendo.  Nei teatri stabili oggi la parola d’ordine è svecchiare, le proposte vengono fatte per attirare un pubblico più giovane. Bisognerebbe, invece, fare un lavoro sulla qualità delle professionalità che si possono inserire all’interno del lavoro. Non cercherei di coinvolgere un pubblico giovane e contemporaneamente allontanare chi quel lavoro non vuole vederlo, alzerei piuttosto il livello qualitativo dello spettacolo. “M” ne è un esempio, un lavoro utile alla creazione e alla formazione di una identità culturale.

Cosa pensi di questa crisi e di questi problemi in ambito teatrale? Come vedi la scena oggi e nel futuro? Cosa bisognerebbe fare?

Lo spettacolo non deve essere di élite deve essere popolare, compreso, altrimenti si parla di installazioni. Bisogna chiedersi: Quanto delle mie dinamiche interiori sono disposto a mettere sul piatto per interpretare il personaggio? Uno spettatore a teatro vuole vedere te, la tua anima, quella parte di te che è vera e la vuole vedere perché quella parte che gli mostri gli ricorda quella profonda parte che è in se.  Se ciò non avviene, è perché tu non l’hai fatto. È l’attore che permette autoanalisi. C’è un racconto di Goethe bellissimo, in cui va a trovare il pittore Friedrich. Si aspetta di vedere uno studio pieno di colori, invece vede una stanza piccola, una tela bianca, una squadra appesa al muro. Chiede come mai e lui dice: è solo nel silenzio e quiete di questo spazio che riesco ad andare nei posti in cui si va di notte per mettere sulla tela ciò che ho dentro, affinché chi la vede fuori possa fare lo stesso viaggio, dall’esterno all’interno. Affinché ci sia approccio onesto, dunque, sono necessari due presupposti: la generosità,  il coraggio e la  consapevolezza di quella che è la verità, di quelli che sono i propri meccanismi interiori o esteriori. I grandi attori sono consapevoli di cosa sono portatori. Ho girato un film con Jasmine Trinca, una produzione italo francese sulla figura di Maria Montessori, e lei è un essere umano capace di andare alla radice vera della sua umanità, per andare a pescare cose anche dolorose.

Il teatro è strumento di verità, come la scrittura, come il giornalista.. anche con la scrittura devi scavare!

Questo è il senso dell’arte, devi avere poi anche la capacità di elaborare quel tipo di esperienza. Lo spettatore  non deve essere investito esclusivamente dall’emozione, c’è anche una componente intellettuale. Credo in un teatro pudico e non pornografico, che non si trasformi nella rappresentazione di se stesso, non credo in quel lavoro attoriale che è quasi teatro terapia. Chi è sul palcoscenico un controllo deve sempre tenerlo.

Hai curato anche diverse regie a teatro. Che regista sei?

Mi sono approcciato alla regia per caso, non ho mai voluto fare il regista. Non credo che l’evoluzione naturale della professione dell’attore sia il regista. Mi è capitato di curare delle regie in alcuni casi perché mi auto dirigevo. Nel 2013 è iniziata una collaborazione con il Teatro Due di Parma, dove mi hanno proposto di fare dei monologhi e nel 2017 mi hanno commissionato uno spettacolo, “La Prigione” di Kennet Brown, un testo a loro caro. Ho elaborato un percorso per un gruppo di attori per un testo senza parole. Io avevo sempre lavorato nel teatro di parola e abbiamo tirato fuori uno spettacolo composto. Ora va di moda confezionare lo spettacolo secondo alcuni parametri, eppure non c’è nulla di più stantio del tentativo di attualizzare il teatro. Il teatro si nutre di una cosa meravigliosa e inesplorata che è l’essere umano, se si parte da lì non c’è bisogno di altro. L’atteggiamento di svecchiamento del pubblico non vuol dire fare la selezione all’ingresso, il teatro non ha questa funzione, è un servizio. Non puoi selezionare una fascia di pubblico, bisogna lavorare sulla qualità. In Francia e in Inghilterra invidio molto il pubblico, l’atteggiamento che il pubblico ha quando va a teatro, che non è quello che c’è qui in Italia: qui c’è il concetto che la cultura sia noiosa. Donnellan dice che lo spettacolo deve essere eccitante, deve utilizzare la leva dell’energia dello spettatore, non la deve distruggere. Gli elisabettiani e i greci hanno basato tutto il loro teatro sulla composizione di tre elementi: magia e mistero, morte e guerra, sesso e amore. In tutti gli spettacoli ci sono queste componenti insieme, sono fondamentali.

Hai vinto il Premio Ubu come migliore attore Under 30…

Ho vinto l’Ubu per il Progetto Domani di cui ti raccontavo, era il 2007, l’unica cosa che posso dire a discolpa del mio Premio Ubu, dato da Franco Quadri, quando c’erano critici importanti, è che erano altri tempi e il Premio aveva un altro valore…. Vogliamo parlare della critica italiana?

Secondo me è morta!

Non ha nessuna funzione, se vuoi capire cosa era la critica leggi “La morte del mattatore”, la raccolta di articoli di Silvio d’Amico del 1950. La critica era una cosa molto precisa a servizio dello spettatore.

Il critico è uno spettatore privilegiato!

Non c’è continuità, se si cerca sistematicamente di interrompere questo flusso per degli interessi, se questa comunicazione viene interrotta e non favorita, è chiaro che tutto il mondo in cui appartiene il settore prima o poi muore. Non morirà il teatro, morirà il teatro italiano. Il teatro non morrà mai, esiste da quando esiste l’uomo, però quello italiano diventa espressione di una identità culturale scadente ed è quello che stiamo vedendo. Credo che ci sia una grandissima responsabilità politica, i mezzi di sostegno sono inadeguati per la categoria. Ho colleghi che durante questi due anni hanno dovuto cambiare lavoro, non è in linea con ciò che accade in Europa e la responsabilità ti permette di capire quanto la politica consideri la funzione culturale del nostro lavoro praticamente zero. Il pesce puzza dalla testa, da come vengono investite le risorse. Io non ho alternative se non fare il mio meglio. Credo nel professionismo e non nell’improvvisazione, non credo nel tirare i remi in barca, mi sono sempre esposto. Credo, per dirlo con una metafora calcistica, che chi ci commuove non è Cristiano Ronaldo, il grande campione, che segna il gol con una squadra campione del mondo ad una squadretta con il favore dell’arbitro, chi ci commuove è Maradona che nella squadra più scarsa del mondo,  con davanti la squadra campione del mondo, li trascina tutti e li porta al risultato vincente. Questo è un modo di vedere che dal punto di vista umano mi fa trovare l’energia per continuare a lavorare. Ci sono responsabilità nelle amministrazioni per le scelte artistiche. Il teatro è il luogo dei punti interrogativi, non è il luogo dove ribadire le proprie convinzioni, dove moraleggiare il pubblico, chiedendo di rispettare le varie minoranze. Non è questo il posto, lo spettacolo può portare delle riflessioni, ma non deve moraleggiare, ribadire. E’ diventato dilaniante l’atteggiamento filodrammatico con il quale non  vado d’accordo. Lo strumento del conflitto è funzionale, non si può prescindere, la sostenibilità non è un tema adatto al palcoscenico. Io sono più per un teatro di pancia, provocatorio rispetto ad altro. Devi eccitare il pubblico, poi viene la riflessione.

Stai vivendo un periodo d’oro diciamo così! Lo scorso anno hai avuto un grande successo con la serie tv “Doc- Nelle tue mani” dove interpretavi un medico/ primario non proprio per bene… Che esperienza è stata? E cosa ti ha regalato?

Il set non l’ho battuto tantissimo nella mia vita, mi ha sempre chiamato il teatro. Quando è uscita la serie “Doc” era un momento particolare, c’era la pandemia, ha avuto un grande riscontro. È stata un’esperienza bella, con il regista, il cast, una squadra di attori eterogenei tra loro. È stato divertente. Anche li, credo che le ragioni del successo siano più profonde. La serie parlava di due cose: l’ identità di un essere umano che non ricorda più chi è, e del tempo, di come sono cambiate le dinamiche, i rapporti, il modo in cui le persone interagisco tra di loro nel giro di 15 anni, tutto cambia rapidamente. La tecnica ti dà qualcosa e allo stesso tempo ti toglie qualcosa. La tecnologia ci ha cambiato intimamente, ci ha spinto verso la strada della solitudine, della separazione, siamo il frutto di una rivoluzione capitalistica che non comprendiamo. Questa fiction metteva sotto traccia queste due tematiche. Sono un attore che ama il palcoscenico, l’esperienza sul set con Todorov mi ha fatto fare pace con il set.

Progetti futuri?

Ho finito di girare questo film con Jasmine Trinca che uscirà a gennaio, ho dei progetti in costruzione al cinema, la ripresa di “M” a settembre a Milano e poi un altro progetto a teatro con Massimo Popolizio di cui non posso parlare. Non mi dispiacerebbe continuare la collaborazione con Massimo, sa cosa vuole il pubblico e cosa è realmente il teatro.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Non perdere

Cyrano-Cirillo: assaporarsi l’anima a fior di labbra!

di Emiliano Metalli Arturo Cirillo in scena con Cyrano al