Luciano Ganci: voce, mente e cuore.

23 Giugno 2023

intervista di Emiliano Metalli

Luciano Ganci, attualmente protagonista al Teatro dell’Opera di Roma nella Madama Butterfly di Giacomo Puccini, possiede una voce tenorile dai riflessi argentei, intensa e sincera, con cui affronta, da qualche anno a questa parte, un repertorio selezionato con ottimi risultati.

Fra gli artisti della sua generazione ha la dote di sintetizzare con efficacia elementi della tradizione con la necessaria innovazione, scenica e artistica, che l’opera sta ricercando da oltre un ventennio.

Non manca inoltre di una dose notevole di ironia e di riflessione, che ne fanno un artista completo, sul piano dell’interpretazione, senza perdersi in inutili sofismi, e nello stesso tempo un conversatore simpatico e acuto. Tanto da sfatare, in un breve ma denso incontro, molti falsi miti della corda tenorile.  

Come sei arrivato alla musica, da bambino?

Grazie al coro della Cappella Sistina. Un amico era in quel coro e suo padre ne parlò con i miei. Facemmo quindi un’audizione, io e mio fratello, e fummo ammessi. Da quel momento non ho mai smesso di esprimermi anche attraverso la musica: il pianoforte, l’organo e il canto. Non ho avuto il coraggio di smettere e alla fine questa mancanza di coraggio si è rivelata in realtà una strada da percorrere, ed è divenuta il mio lavoro.  

Qual è il tuo primo ricordo in concerto? 

Era il 29 giugno del 1992. Fu la prima messa in Vaticano con il Papa. Fu molto emozionante perché era un rituale fuori dal mondo. Si trattava dei festeggiamenti per S. Pietro e Paolo, che a Roma sono particolarmente sentiti! Di ricordi ne ho molti altri, belli e brutti. Tutti però necessari a rendere con pienezza quello che sono oggi, come artista e come persona. 

Hai avuto momenti di dubbio, nelle scelte artistiche e lavorative? 

Dubbio no, ho sempre avuto le idee abbastanza chiare sulle scelte, soprattutto nel repertorio. Le scelte sono molto importanti. Ho cercato di commisurarle in base al momento. Essendo musicista, sono da sempre stato in grado di valutare in poche ore se potevo fare o meno un determinato ruolo: prendevo lo spartito, lo leggevo e da lì capivo se era il caso o meno di affrontare in quel momento quel determinato ruolo. Momenti cruciali ce ne sono stati tanti, alla fine ogni serata può essere un momento cruciale. Come ti dicevo, sono stati più o meno belli. Ma non c’è stato nulla di negativo che non abbia poi portato a una presa di coscienza, a un insegnamento e alla fine a qualcosa di estremamente positivo. 

Cosa ti preoccupava di più? 

Il fatto che i nervi, e quindi la voce, non reggessero il peso emotivo e vocale. Il nostro è un lavoro in cui contano molto i nervi, il saper tenere duro in tanti momenti di difficoltà: da quelle più pratiche o professionali fino a quelle personali che tutti hanno. Per noi, però, mantenere la stabilità emotiva e nervosa non è scontato e ha risvolti quotidiani in palcoscenico.  

Oggi, rispetto a cento anni fa, è più facile il tuo mestiere? 

Cento anni fa non c’ero, quindi non saprei. [ride] Ipotizzo che forse oggi è più difficile perché abbiamo cento anni di letteratura alle spalle e certamente ci sono molti meno teatri e situazioni per intraprendere questa attività. È difficile fare qualcosa di diverso che non sia stato fatto e già ascoltato! Qual è la differenza? Credo il percorso. La trama di un’opera va da A a B in una storia che è nota per tutti. La differenza sta nel modo in cui tu prendi il pubblico e lo conduci da A a B, il percorso che fai. Non deve mai esistere la recita di routine, quella in cui canti tanto per cantare. Può capitare se non sei in forma fisicamente, ma in generale c’è bisogno di mettersi sempre in gioco e servire onestamente il pubblico per rendere anche giustizia ai sacrifici che si fanno per arrivare a quel punto. Il mestiere non è semplicemente cantare, ma consiste nel dare al pubblico più di quanto si aspetta. Ogni sera. Per questo io ogni volta cerco di rendere diversa ogni mia interpretazione.

Come reagisce la gente intorno a te quando scopre il tuo lavoro?  

Non ne parlo tanto, di solito. Chi sa, fa domande specifiche. Chi non sa, a volte non entra nel merito. A volte in taxi, se mi chiedono, rispondo “mi occupo di relazioni internazionali” così le domande finiscono. Raramente insistono. Quando alla fine i più ostinati arrivano a farmi confessare di essere un cantante lirico, subito mi chiedono se sono tenore: forse ne ho la faccia. Ma non giro con la sciarpa al collo. [ride di nuovo] Non mi appartiene quel modo di essere. L’ironia è la chiave sempre di ogni situazione e io la prendo con ironia anche in quel caso. 

Il primo debutto in palco? 

Alfredo nella Traviata del 2010: primo ruolo da protagonista a Palermo, con professionisti ammirevoli, ne ho un ricordo indelebile. 

Il personaggio a cui sei più legato? 

Ora Cavaradossi, perché è romano e perché mi rispecchia più di ogni altro ruolo. Idealista, ma anche scanzonato, tenero. La cosa più incredibile di Cavaradossi, almeno nella mia idea del personaggio, è che lui sa benissimo che sarà ucciso, ma a Tosca fa credere che non accadrà. Come nel finale de La Vita è bella. Lo fa per lei, per evitarle una sofferenza inutile, o almeno per abbreviarla. Lo trovo un gesto d’amore grandissimo.

Un ruolo che vorresti interpretare in futuro? 

Un ruolo che farei, ma che non farò mai, è quello di Nemorino in Elisir d’amore. Forse un giorno per scherzo lo farò. 

Guardando al tuo repertorio, tu sembri rappresentare una vocalità specifica del mondo operistico, forse l’ultima vocalità divistica di questo sistema produttivo e artistico: vivi con pressione questo tuo ruolo? 

Assolutamente no, vivo con la più grande tranquillità del mondo. Assecondo qualcosa che mi è stata generosamente data in dono. Non ne sento il peso. Un po’ come il mio nome: Luciano. A volte mi dicono “eh sto nome…” e io dico “me ce chiamo!”. Ecco questo ti riassume il mio approccio. Ma al di là delle battute, credo che sia un mestiere di grande rigore, in cui è necessario studiare quotidianamente, perché il talento passa, come la gioventù, il resto è solo tanto studio. 

Dopo un periodo di riscoperte e di divulgazioni, il grande repertorio si è di nuovo assottigliato, negli anni. Tu preferiresti sperimentare o restare all’interno dei titoli più richiesti? 

Quando mi chiedono opere rare, se posso e c’è tempo, le accetto sempre volentieri, se rientrano nelle mie corde. L’errore attuale è di associare opera e business, cioè guardare alle programmazioni solo dal punto di vista del botteghino o della “vendibilità”. L’Opera è perdita, storicamente, tutta la cultura lo è: bisogna rischiare e tentare. Il guadagno, se c’è e quando c’è, arriva da settori complementari. Per farlo, per accettarlo, c’é bisogno di coraggio. La cultura ha un valore virtuale che prima o poi torna indietro. Creiamo qualcosa che silenziosamente darà frutti nel futuro e nella società.

C’è un limite alla sperimentazione, alla riscoperta? 

Dipende dal modo in cui si fa. La riscoperta ha dei limiti. Se Puccini ha escluso una pagina in un’opera evidentemente non la voleva utilizzare. Magari sarebbe più opportuno ripescare autori come, per esempio, Vieri Tosatti o Chailly oppure Franco Faccio: titoli che, non si sa per quale motivo, sono finiti nel dimenticatoio. Non mi riferisco solo alla riscoperta scientifica o filologica, che spesso non rende onore al compositore. Può esserci in una sede accademica quel tipo di recupero, in un festival dedicato o in determinate operazioni culturali, ma secondo me la riscoperta va ampliata a opere che meritano di essere nuovamente messe in scena o anche solo eseguite in forma di concerto.

Qual è il tuo rapporto con il ruolo del regista? 

Io sono un gerarchico, in teatro. Ho un rapporto ottimo con tutti i reparti con rispetto umano, professionale e lavorativo. Anche se mi si offre un’idea da me non condivisa, la prendo e ci lavoro. Ma sono molto attento. Cerco di venire incontro alle esigenze delle differenti professionalità. Forse questo stride con l’idea del tenore-divo: non mi ritengo tale, comunque, e in questo caso non mi appartiene per niente. Se devo rinunciare a qualcosa di Luciano, lo faccio in favore dello spettacolo, dei colleghi, della magia e dell’empatia che si deve creare fra tutti sul palcoscenico, perché lì siamo tutti allo stesso livello e concorriamo tutti allo stesso risultato: la bellezza!

Un’ultima domanda: Pinkerton, chi era costui? 

Un uomo, anzi un ragazzone, che non va odiato fin dall’inizio. Il finale non deve essere anticipato, altrimenti ti perdi l’evoluzione e il gusto di seguire la storia. All’inizio è un uomo infatuato di un’idea, di una moda del tempo, forse solo attratto da un gioco che facevano tutti, e comunque non è da subito un personaggio negativo. Lo diventa quasi subito, ma va giudicato soltanto dal secondo atto, quando si palesa la sua viltà. Questo il limite dello spettacolo operistico: tutti sanno come va a finire, e quindi non ti godi il viaggio. Anni fa l’approccio del pubblico era quasi circense, si aspettava solo l’acuto o la prodezza, ora forse è eccessivamente passivo e sta a noi interpreti risvegliare quell’ardore che decenni fa infuocava le sale davanti a questo o quell’interprete. Il pubblico è l’opera lirica, il pubblico è lo spettacolo. A noi la voce, a voi l’applauso!

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