di Emiliano Metalli
Caleidoscopico Timi a guida di una corte – è il caso di dirlo – che di miracoloso ha in particolare il dono della trasformazione, della mutevolezza, di un instancabile estro immaginifico in uno spazio scenico – dovremmo dire universo o, meglio, multiverso – polisemantico.
Ogni atomo, come ogni interprete e azione e suono e gesto… potrebbe essere una citazione, probabilmente involontaria, acquisita, “rubata” dalla vita e vivificata in Arte, questo sì volontariamente.
Un’arte performativa che non crea distanze fra linguaggi, ma li plasma uno nell’altro, uno per l’altro, eroicamente ed eroticamente, facendosi a sua volta linguaggio della storia. Sono tanti, a volte troppi, gli stimoli cui è sottoposto il pubblico tanto che è difficile osservare tutto restando vigili, cercando di far quadrare la storia di questo quartetto incestuoso – Salomè, Erode, Erodiade, Giovanni – che tante declinazioni ha subito da Oscar Wilde fino a noi.
Eppure in questa versione di Salomè sono evidenti delle “linee guida”, dei “percorsi illuminati” che, in un modo o nell’altro, restano preferenziali, nell’esperienza teatrale di Filippo Timi, geniaccio irriverente che sa mescolare i registri spingendosi oltre l’eccesso, in un iperuranio cui pochi sanno accedere.
La storia è nota: Salomè, figlia di Erodiade, ama Giovanni e vorrebbe possederlo carnalmente (l’amore è solo un pretesto per avere il corpo); ma anche Erode, il patrigno e zio a tutti gli effetti, ha un desiderio di possesso carnale verso la stessa Salomè. Da qui il dramma, che solitamente si manifesta dopo la fatidica “danza dei sette veli”, per cui Erode è costretto ad accettare la richiesta di Salomè: la testa di Giovanni su un piatto d’argento. Sì, perché Giovanni ha avuto l’ardire di rifiutarsi preferendo il suo dio alla ragazza. Erodiade, odiata e vituperata dal profeta, è di volta in volta commentatrice o istigatrice delle azioni altrui. Più o meno le varie versioni seguono questo schema.
La versione di Timi, che è il centro nevralgico di ogni azione scenica, marionettista e marionetta al tempo stesso, si distacca da uno sviluppo cronologico, preferisce isolare gli episodi in mansions simili a quelle del teatro medievale – che sono di fatto strutture della scena, luoghi deputati – affidando a ognuno di essi una caratteristica peculiare.
Elimina poi la danza come elemento di svolta drammatica, anzi la anticipa a tutto lo sviluppo successivo, facendola però eseguire non da Salomè, bensì da un “Giovanni-senza-testa” (il promettente Mattia Chiarelli). Il tempo reale è dunque annullato, la vicenda non accade, ma è già accaduta: quello cui assistiamo è una speculazione e non una azione.
Così si giustificano almeno, o meglio si inquadrano più chiaramente, le digressioni, gli scostamenti, le pause, le spigolature drammaturgiche che egli dissemina, finanche i parallelismi più arditi, in ogni sezione attraverso ogni alfabeto.
La musica: così il tema della “Morte del cigno” intrecciato a quello di Summetime durante la danza d’apertura, ma anche la “sceneggiata napoletana” per Erode, un momento di sincronia drammatica che ricorda il Servillo di Rasoi.
La materia: gli abiti-veli, i veli-feticcio-nascondiglio, l’enorme, beckettiana gonna-paracadute, persino le bottigliette d’acqua sembrano prendere vita dalla fonte mistica di un Giardino babilonese. Lo stesso che materializzano le parole di Timi in un prologo che presenta una materia peccaminosa, ma anche ambita e proibita.
I video, poi, che accompagnano tutta l’azione con i titoli in stile “Tarantino” o i corpi ambigui e allusivi; video che trasudano citazioni cromatiche e sensuali alla Carmelo Bene (principio ispiratore di questa opera su Salomè) e che si spingono fino a una citazione nazionalpopolare come i Puffi. Sottilmente ironica di una società che nasconde la malizia femminile fin nei prodotti per l’infanzia, crescendo generazioni di maschilisti inconsapevoli.
“Vedrai vedrai”- splendida stasi musicale che è però picco dell’arte instancabile di Rodrigo D’Erasmo e Mario Conte, attivi costantemente sulla scena come incarnazioni dei cortigiani di Erode o altre Salomè essi stessi, espresse e manifestate attraverso tutti gli strumenti a loro disposizione – introduce a un finale giocato invece nel registro, già presentato in apertura, ma in maniera meno scanzonata, di una comicità “interattiva”, in cui il sesso – citato, raccontato, sublimato o schernito – diviene da mezzo di morte a elemento naturale e ludico.
Eppure la tragedia segue il suo corso, lo sappiamo fin dall’inizio, e Giovanni deve morire, così come Salomè.
Ecco che in questi momenti drammatici, in bilico fra tragico e grottesco, sull’onda dell’eccesso espressivo che si fa terribile come il “sublime”, Filippo Timi si trasforma ancora: la sua voce, una voce materica, tellurica, spaventosa persino nel silenzio, si fa strada attraverso la parola, fedele a un autore o interpolata dalle speculazioni personali in relazione al ruolo incarnato (madre, figlia, re…).
L’interprete scende allora nei vicoli bui del pensiero disumano e manifesta tutta la sua potenza, tutta la sua crudeltà: la morte, però, è un nulla nichilistico, ma non la fine: è una scintilla dell’Universo che può provocare ancora nuovi Big Bang.
I CONCERTI NEL PARCO
ESTATE 2024
Parco di Casa Del Jazz
1 agosto 2024
ore 21.00
SALOMÈ L’AMMAZZA RE
FILIPPO TIMI
Filippo Timi, attore
Rodrigo D’Erasmo, violino, voce
Mario Conte, tastiere, voce, live electronics
Mattia Chiarelli, danzatore
Drammaturgia , videoproiezioni e regia Filippo Timi
Musiche di Rodrigo D’Erasmo, Mario Conte, autori vari