Juniper è l’esordio alla regia di Matthew J. Saville, attore e regista neozelandese che nella sua opera prima veste anche i panni dello sceneggiatore. Juniper parla di lui, di sua nonna e del tempo che hanno condiviso quando era ragazzo, affrontando il tema della solitudine e del declino.
Sam (George Ferrier) è un adolescente frustrato con istinti suicidi che viene iscritto da suo padre in un collegio in seguito alla morte della madre. Ruth (Charlotte Rampling), sua nonna, è una donna forte e tenace, con una dipendenza dal gin e dai modi spesso burberi e aspri. Rientrato dal collegio per le vacanze, Sam scopre che Ruth si è trasferita lì in Nuova Zelanda dall’Inghilterra per monitorare il suo stato di salute dopo la frattura del femore. Il rapporto inizialmente conflittuale fra i due diverrà ben presto l’occasione per entrambi di scoprire e accettare nuovi lati della vita (e della morte).
Il titolo è invero emblematico e simbolico. “Juniper” sta infatti per “ginepro”, piccolo arbusto sempreverde noto per le sue bacche aromatiche utilizzate spesso in cucina e per dare risalto al sapore del gin. Matthew Saville racconta che sua nonna Heather era una grande bevitrice di gin, che se ne scolasse addirittura una bottiglia al giorno, ecco perché questo riferimento nel titolo. Interessante è altresì l’aura simbolica che ruota attorno al ginepro. In greco è arkeuthos (= dal verbo arkeo e cioè “respingere il nemico”) e allude al nemico universale dell’uomo, la morte. In questo caso la morte è declinata proprio nel concetto di vecchiaia, nella non accettazione della fine. Ruth non riesce ad ammettere a se stessa che il suo corpo stia abbandonando la sua mente, che la giovinezza perenne che vive in lei stia sfumando nella macchina che è il suo corpo e fa di tutto per rallentare questo processo, eccedendo nell’estremo opposto di comportarsi come una bambina dispettosa: si lagna, domanda insistentemente, ripercorrerà la sua adolescenza dando una festa a base di alcool e erba. Questa trasformazione interiore ci viene mostrata per immagini e sicuramente la nonna che viene tenuta in braccio dal nipote è la più rappresentativa.
Il ginepro può tuttavia rimandare al significato di “resistenza” o di “vita eterna” facendosi anche archetipo di chi segue con forza e decisione una strada ripulita da qualsiasi tipo di condizionamento sociale imposto. Questa strada passa inevitabilmente attraverso una disconnessione dalla realtà così com’è, per una perdita di lucidità enfatizzata dall’alcool. L’unico modo che permetterà a nonna e nipote di comunicare è proprio bere, distaccarsi per empatizzare.
In questo rapporto generazionale in cui ad avere la meglio apparentemente è l’incomunicabilità, non si passa per la generazione di mezzo. Il figlio di Ruth, padre di Sam, non ha un buon rapporto con sua madre e per la maggior parte del tempo filmico non è presente. Questa assenza dilata esponenzialmente il gap tra i due personaggi che finiscono per unirsi come i vertici di due semicerchi senza passare dal centro. Si auspica che lo spirito vitale di Ruth dia la forza a suo nipote per catturarla quella vita. Un vero e proprio passaggio di testimone manifestato dall’importanza del tramonto, ma solo affinché ritorni l’alba (Ruth: A molte persone piace il tramonto, io preferisco l’alba).
I dialoghi sono scritti piuttosto bene, risultano ben ponderati e umoristici al tempo stesso, mentre la sceneggiatura appare nell’insieme vittima di uno squilibrio tematico e temporale. Vediamo troppo lei e troppo poco lui. Una delle prime scene che ci vengono mostrate è il tentativo di suicidio del ragazzo, salvato in extremis dall’arrivo di un cavallo bianco. Se in questo caso il cavallo bianco è emblema di libertà e buone e coraggiose scelte come quella di continuare a vivere, si ha l’impressione che proseguendo la visione sia effettivamente quasi solo presagio di morte, a discapito della vita. L’avvicinamento dei due risulta troppo repentino rispetto alla carica quasi piuttosto brutale con cui si apre la storia e alla totale chiusura dei sue personaggi; allo stesso modo il declino e la morte della nonna accelerano troppo rispetto all’andamento adottato fino a quel momento. Che sia la vita a pretendere violentemente di essere riportata su un binario lineare? Forse…chissà…
L’esordiente George Ferrier fa un ottimo lavoro nei panni di Sam, una performance realistica e di livello. Di Charlotte Rampling c’è poco da dire, un’attrice che lavora in sottrazione e lo fa magistralmente. Mai troppo, mai troppo poco, glaciale come un cubetto di ghiaccio dentro al gin.
Il cast si compone poi di Marton Csokas nei panni di Robert, padre di Sam e figlio di Ruth e di Edith Poor che interpreta Sarah, infermiera personale dell’anziana.
La trama alla base del film non è di certo fra le più innovative. Il tema del conflitto generazionale è stato infatti fin troppo spesso usato ed abusato. Ma Saville riesce a non essere banale nel raccontarlo, nonostante un finale già preannunciato e immaginato. La non banalità probabilmente risiede nel luogo in cui questa storia vive, la Nuova Zelanda, che riesce a condensare universalità e assoluta particolarità alla vicenda. Potrebbe succedere ovunque e sempre eppure succede lì in quel momento. Il regista ci tiene esplicitamente che sia la Nuova Zelanda lo sfondo di questa storia di marginalità e solitudine dichiarando che la scuola che frequentava da ragazzo ha visto effettivamente il suicidio di tre studenti, portando di conseguenza lo spettatore a domandarsi quanto concretamente lo spazio che abitiamo influenzi il nostro sentire e il nostro agire.
Juniper – Un bicchiere di Gin di Matthew J. Saville prodotto da Desray Armstrong e Angela Littlejohn sarà disponibile nelle sale italiane a partire dal 3 ottobre.