recensione di Emiliano Metalli
Davide Livermore firma la regia e i movimenti coreografici di uno spettacolo di ampio respiro che sembra citare i colossal del cinema muto: dalla Cleopatra di Helen Gardner per la regia di Gaskill alla più nota Theda Bara, fino alla nostrana Cabiria di Giovanni Pastrone. Lo suggeriscono gli appariscenti costumi – con tanto di trucco e parrucco dark ante litteram – di Gianluca Falaschi che ripropongono, all’inverso, il gioco di specchi fra teatro e cinema, allora arte agli esordi. Tenta di tradurlo, ma con minore efficacia, anche l’impianto scenografico di Giò Forma che suddivide lo spazio in due sezioni, il proscenio e il palco nella sua totalità, attraverso due pareti mobili, all’apparenza mura o strutture architettoniche: a volte palazzo, a volte recinto, altre tomba. Nel mezzo del palco si innesta, in una decorazione sostanzialmente pseudo-archeologica, un elemento all’apparenza ultracontemporaneo, geometrico, ingombrante ed enigmatico su cui immagini, luci e simboli si susseguono, quasi senza soluzione di continuità.
I video, realizzati da D-WOK, ossessivamente rivestono questa sorta di Kaaba a mo’ di kiswa, enfatizzando la vicenda, assolutizzandola in una sorta di cibernautico racconto visivo su questo monolito stile Kubrick. Una contemporaneità di trapassato remoto, passato prossimo e presente che non sempre si mantiene in equilibrio.
Le luci di Antonio Castro, infine, cercano di supportare ora un aspetto ora l’altro, bagnando cromaticamente e simbolicamente le situazioni (come nel caso della scena del giudizio che termina con un intenso rosso-sangue o in quella dei prigionieri resi grigi in contrasto all’oro risplendente dei Faraoni) o cercando disperatamente di illuminare il volto dei protagonisti nelle scene più intime come il terzetto iniziale o il duetto sulle sponde del Nilo.

Nel complesso lo spettacolo ha numerosi pregi e si impone per l’esuberanza, forse un po’ troppo simmetrica, delle scene corali. Le altre, invece, faticano a mantenere la tensione drammatica che la musica suggerisce: gli atteggiamenti troppo plastici o troppo disinvolti degli interpreti non danno, alla fine, una reale illusione della ricercata ricostruzione cinematografica d’epoca, oscillando fra momenti intensi e attimi di confusione.

L’orchestra in forma smagliante e il coro, diretto da Ciro Visco, intenso e vibrante soprattutto sul fronte maschile – magnificamente tellurico nelle due cerimonie religiose – hanno reso merito alla direzione intensa, dettagliata e limpida di Michele Mariotti. Il Verdi maturo, infatti, nasconde in alcuni passaggi orchestrali delle preziosità che vanno valorizzate e incastonate nella sua concezione drammatica e Mariotti non perde occasione di scovarle, inglobandole nella sua personale visione di questa partitura. Favorisce così il nitore delle arcate melodiche negli assolo strumentali, isolandone i temi più importanti, sostiene gli interpreti nelle asperità vocali, mantiene l’insieme con grazia e decisione nelle scene corali, ricama sulla melodia il contrappunto orchestrale senza strafare e poi sorride e ringrazia, con la leggerezza di chi governa senza tirannia.

Krassimira Stoyanova è un’Aida che ha molte frecce al suo arco, soprattutto sul fronte vocale (mezzevoci e filati sono le parti più pregevoli, mentre i forti restano meno convincenti). Peccato che in scena esegua quasi svogliatamente le direttive registiche senza concedere anima al personaggio. Ne scaturisce un conflitto fra i due piani che va a discapito del risultato globale, ma che non incide su alcune pagine interpretate con equilibrio e misura. Alcune soluzioni originali nei recitativi stupiscono e oltrepassano la tradizione, mentre qualche fiato inaspettato spezza le arcate melodiche, ma resta perdonabile a fronte di una dolcezza timbrica ancora notevole dopo molti anni di carriera.

Irene Savignano possiede un timbro ammaliante, ma non decisamente drammatico: una caratteristica che potrebbe sviluppare negli anni a venire e in accorte scelte di repertorio. Sempre che tali scelte la conducano in quella direzione. Questa assenza di forza drammatica l’ha penalizzata in alcuni passaggi medio gravi in cui il volume orchestrale non le concedeva spazio, nonostante il supporto della direzione, mentre la scansione tragica che alcune frasi di Amneris richiederebbe non risultava così compiuta neppure sul fronte del fraseggio. Ha però dato il meglio di sé nella prima scena del II e del IV atto, quando la tessitura e la situazione drammatica erano più adatte alla sua attitudine attuale. Come giovane artista di Fabbrica YAP, tuttavia, ha ribadito, con la sua performance, la qualità del progetto e acceso una speranza nel futuro del teatro lirico italiano.

Luciano Ganci nel ruolo di Radamès si conferma un artista di talento. Pur non esente da qualche difetto di emissione – il passaggio e alcuni tentativi di mezzevoci non sono sempre perfetti all’ascolto – il giovane tenore possiede però uno strumento dal bagliore argenteo che si enfatizza nei passaggi più eroici, svetta nei concertati, eccelle nei registri più acuti senza perdere smalto nella zona grave e non si tira indietro di fronte alle dinamiche più ardue della partitura, come il finale dell’aria “Celeste Aida”. Ha fraseggiato con attenzione, senza abbandonarsi alle attitudini più tradizionali, trasferendo al condottiero egizio una moderna passione, un’incrinatura nel coraggio e nelle certezze virili soprattutto al momento della morte.

Ben assortite, infine, le voci gravi: feroce ed energico l’Amonasro di Vladimir Stoyanov, nel solco della tradizione; spietato e megalitico il Ramfis di Riccardo Zanellato che si è distinto sia nel finale del I atto sia nella scena del giudizio; degno di nota Giorgi Manoshvili, un giovane Re da tenere presente in futuro. Suggestivo, ma assai breve, infine, l’intervento di Veronica Marini nei panni della sacerdotessa che ricorda, nella posa plastica dell’abito, proprio Theda Bara o, per rimanere in ambito operistico, Rosa Ponselle.

Da segnalare, in concomitanza con questa produzione di Aida, l’uscita del numero zero di Calibano, la nuova rivista del Teatro dell’Opera di Roma, che mira ad ampliare la riflessione sui titoli in programma in rapporto alla società e al mondo, come cita lo stesso sottotitolo. In questo numero dedicato ad Aida si trovano molti contributi sul blackface e le sue implicazioni interpretative, etiche, artistiche e semiotiche, corredati da un apparato iconografico accattivante. Diretta da Paolo Cairoli e pubblicata da effequ, il progetto nasce inoltre in collaborazione con il Master in giornalismo e comunicazione multimediale dell’Università LUISS.

Aida
Musica di Giuseppe Verdi
Opera in quattro atti
libretto di Antonio Ghislanzoni
Prima rappresentazione assoluta Teatro dell’Opera del Cairo, 24 dicembre 1871
Prima rappresentazione al Teatro Costanzi, 8 ottobre 1881
direttore Michele Mariotti
regia e movimenti coreografici Davide Livermore
MAESTRO DEL CORO Ciro Visco
SCENE Giò Forma
COSTUMI Gianluca Falaschi
LUCI Antonio Castro
VIDEO D-WOK
PERSONAGGI E INTERPRETI
AIDA Krassimira Stoyanova / Vittoria Yeo (2, 5, 11)
AMNERIS Ekaterina Semenchuk / Irene Savignano** (2, 5, 7, 11)
RADAMÈS Gregory Kunde / Luciano Ganci (2, 5, 7, 11)
AMONASRO Vladimir Stoyanov
RAMFIS Riccardo Zanellato
IL RE Giorgi Manoshvili
LA SACERDOTESSA Veronica Marini
IL MESSAGGERO Carlo Bosi
** diplomata “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’opera di Roma
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma