di Emiliano Metalli
Ricorrono quasi cento anni dalla Prima rappresentazione di Turandot, ultima opera pucciniana (incompleta) e per molti melomani anche ultimo raggio di sole nel panorama lirico italiano prima di una buia notte senza stelle. C’è chi grida da anni che l’opera è morta, ma nel frattempo i compositori di tutte le nazioni seguitano a creare, dando torto a chi vorrebbe mettere in un sarcofago una forma d’arte vecchia di secoli, seguitando a crogiolarsi nel recupero filologico e narcisista di un passato glorioso. Ma a ben guardare il tempo trascorso – più di quattro secoli! – l’opera ha sempre, costantemente mutato forma, aspetto, contenuti, ha fuso insieme tradizioni musicali, universi sonori, trafugato dalla letteratura o dal teatro di prosa, a volte dal cinema e dalla tv.
In questa ottica ottimistica martedì 9 maggio è andata in scena al Teatro Palladium di Roma, per il Dams Music Fest dell’Università Roma Tre, l’ultima composizione di Matteo D’Amico: Sogno (ma forse no). Segno, dunque, che questo genere di teatro ha ancora nuove frecce al suo arco: il successo riscosso ha confermato inoltre il buon lavoro della fruttuosa collaborazione tra l’Associazione In Canto, che ne ha curato la prima esecuzione assoluta al Festival Opera Incanto di Terni, l’Associazione Roma Sinfonietta, l’Accademia Filarmonica Romana e il Dams Music Fest.
Composta nel 2022 Sogno (ma forse no) è un’opera meno “onirica” di quanto ci si possa aspettare dal titolo. Il testo è stato approntato dallo stesso compositore, con la collaborazione di Sandro Cappelletto, partendo da un breve atto unico di Luigi Pirandello, che porta lo stesso titolo.
Scritta tra la fine del 1928 e l’inizio del 1929, fu rappresentata la prima volta solo nel 1931 a Lisbona, su traduzione portoghese di Caetano de Abreu Beirão. La prima italiana invece è del 1937 a Genova, allestita da un gruppo universitario. Non ha mai avuto il successo di altri lavori pirandelliani, nonostante ci fossero, fra gli atti unici, molti cavalli di battaglia delle compagnie di giro. Non stupisce: il testo della commedia è povero, al limite dell’inconsistenza. L’azione ruota attorno al tema del tradimento, come molte altre creazioni pirandelliane
La lealtà, la lealtà è un debito, e il più sacro, verso noi stessi, anche prima che verso gli altri. Tradire è orribile. Tradire è orribile.
ma senza un reale approfondimento. La psicologia dei personaggi è superficiale, la tensione è più nel non detto e i dettagli della relazione fra i due protagonisti, così come il resto del mondo, restano sospesi. Quello che interessa al drammaturgo è il mezzo quasi artigianale della messinscena, l’effetto cinematografico di alcuni passaggi per mezzo della scenografia e dell’illuminazione.
Lo scopo: creare l’illusione del sogno in contrasto alla realtà. Non a caso Pirandello occupa più spazio nelle didascalie che nei dialoghi, costruendo la drammaturgia più con l’azione muta che attraverso la parola, come risulta chiaramente fin dalla didascalia iniziale:
Una camera: ma forse no: un salotto. Certo, una giovane signora vi giace su un letto: ma forse no: sembra piuttosto un divano, a cui per qualche molla si sia abbattuta l’alta spalliera. Del resto, nulla in principio si discerne bene, perché la stanza è stenebrata appena da un lume innaturale che emana dal tappetino verde prato davanti al divano. Questo lume par debba da un momento all’altro sparire a un lieve moto nel sonno della giovane signora dormente. Difatti, è proprio il lume d’un sogno: come quel salotto è una camera da letto soltanto nel sogno della giovane signora: e un letto, quel divano.
Dopo un preambolo necessario, torniamo all’opera di D’Amico.
Se, dunque, il libretto soffre di certi semplicismi alla fonte, la musica si offre come un sostegno robusto, a tratti anche superando i limiti testuali e regalando all’ascoltatore l’illusione del sogno (ma forse no) su cui aleggia lo spirito pirandelliano.
Una introduzione registrata – il Vecchio frac di Modugno – ci conduce in una stanza. Questa musica viene da fuori, o forse no. Dalla radio, che non c’è, o forse no. Dalla mente e dal ricordo della protagonista che dorme, o forse no. Quando iniziano gli strumenti, che in parte citano la canzone, storpiandola volutamente per brandelli melodici, proprio come in un sogno, all’ascolto si percepisce una sorta di distorsione della realtà: è forse questa la chiave della trasposizione musicale? Ma l’introduzione ricorda anche, per certe note lunghe degli archi, il preludio di Traviata, di cui in parte la storia riprende gli argomenti. La ragazza, infatti, sembrerebbe una donna di facili costumi e l’uomo un amante squattrinato: c’è anche molto di autobiografia pirandelliana nel rapporto con la Abba, o forse no?! C’è, forse, qualche citazione melodica pucciniana, mentre i due alla finestra (che è indubbiamente una finestra e non uno specchio, forse) nominano la luna. Ma potrebbe essere una suggestione. La parte più interessante della creazione vocale sta in alcuni passaggi duettanti in cui le voci ripetono ostinatamente una parola o una frase su un inciso melodico e ritmico, come pure in una sorta di dialogo di conversazione-seduzione. Ma nel complesso, la scrittura vocale sembra guardare a un certo tipo di operismo, principalmente francese, di autori novecenteschi. In questo la semplicità del libretto sembra tornare utile al compositore, che in alcuni momenti, e in particolare nel finale, ricorre al parlato.
Più debole la regia di Denis Krief, nonostante la pregevole essenzialità. Di fondo ci sarebbe la necessità di creare effetti che non vengono creati. Un esempi per tutti sono le luci solo dall’alto laddove Pirandello avrebbe suggerito una luce dal basso o un taglio di matrice espressionista a dare angolosità e spigolature ai tratti morbidi del volto.
Se il cameriere di Graziano Sirci, poi, risulta scenicamente perfetto nella sua ambiguità di intenti, gli vengono però affidate azioni (come quella iniziale) che inquadrano la situazione in maniera prosaica, riducendo ancora di più lo scarto fra sogno e realtà. Il sogno pirandelliano infatti non è ebbro né medico, bensì una proiezione di coscienza. Questo antefatto toglie mordente all’azione successiva. Gli toglie principalmente il dubbio della veridicità dell’azione, che è invece la chiave di lettura di Pirandello. Dei trucchi scenici suggeriti, di suggestioni appunto, la regia non ha tenuto conto, attuando una modernizzazione che è anche però diminuzione d’effetto.
La parte scenicamente meno credibile è nel finale: le parole “latte o limone?” perdono di senso se questo te è stato già bevuto e più di una volta. Quella battuta, nell’idea originale che in effetti la musica raccoglie meglio della scena, dovrebbe riportare la tensione al massimo grado, illudendo lo spettatore che stia per accadere realmente quanto accaduto solo nel sogno. Dando, quindi, una giusta corrispondenza alla metà del titolo: ma forse no.
Impari anche la resa dei due interpreti: Roberto Jachini Virgili appare scenicamente goffo, anche per colpa dell’abito, laddove ci vorrebbe un atteggiamento mefistofelico in ogni singola azione. Sul fronte vocale è risultato poco a suo agio, nonostante la corposità di una voce tenorile, con qualche nota appannata nel registo acuto, giustificata forse dalla difficoltà della parte. Al contrario, Elisa Cenni, la cui giovane signora è smaliziata, disinvolta anche se a tratti incerta, ha dimostrato di possedere una voce perfettamente a fuoco nella parte sia per timbro che per duttilità musicale.
Applausi al direttore Fabio Maestri e a tutto l’Ensemble In Canto che ha saputo rendere con dovizia una partitura per nulla scontata.
Matteo D’Amico, Sogno (ma forse no) | DAMS MUSIC FESTIVAL
Roberto Jachini Virgili – L’uomo in frac
Elisa Cenni – La giovane signora
Graziano Sirci – Un cameriere
Ensemble In Canto
Fabio Maestri – direttore
Denis Krief – regia e impianto scenico
Produzione Associazione In Canto 2022