Al Teatro dell’Opera va in scena il (melo)dramma di Otello

8 Giugno 2024

di Emiliano Metalli

L’aggettivo “melodrammatico” significa “esagerato, teatrale, ostentatamente passionale”. Alla definizione la Treccani aggiunge una suggestiva citazione di Sebastiano Vassalli: “un tramonto m. e teatrale come solo in Italia sono i tramonti di settembre”. La cito perché l’ambito cromatico del tramonto ricorda, a tratti, i colori di questo spettacolo impostato, per ammissione dello stesso regista, sul binomio fuoco-acqua.

Non è quindi improprio partire da questa definizione per recensire l’Otello di Giuseppe Verdi in scena al Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Allex Aguilera e la direzione di Daniel Oren.

Di solito per decifrare uno spettacolo – operistico forse ancor di più – sono necessari alcuni punti di riferimento. Ognuno ha i propri: gli autori e la loro storia, anche il librettista nei casi più fortunati come questo, e certamente la tradizione scenica in termini di allestimenti e la lunga lista di registi, direttori d’orchestra e interpreti che ne hanno garantito la presenza nei cartelloni dei teatri.

Il Novecento e il suo approccio sempre più filoregistico negli allestimenti operistici ha gettato la sua ombra nel XXI secolo e ha creato precedenti di ogni genere allontanando le opere dalle intenzioni originarie degli autori e dando luogo a esecuzioni a volte uniche, sperimentali e innovative, altre disastrosamente improprie.

Il pubblico tende a cogliere sempre meno la differenza, ormai, perché la distanza dal “melodramma”, inteso come approccio registico rispettoso e tradizionalista e non come genere, aumenta sempre più.

Melodramma, quindi, come sinonimo di tradizione? Forse.

D’altronde non si può valutare la portata di un’idea senza un metro di paragone. E le regole, per quanto limitanti, hanno spesso funzioni di valorizzazione di uno o più elementi: distruggerle va bene quando il risultato è qualcosa di altro, ad un livello medesimo o superiore al precedente esito.

Altrimenti che senso ha? Sperimentare? Sì, ma cosa? E dove? Nell’opera, di solito, sulla pelle degli interpreti.

È un dato di fatto che ogni regista vuole dire la sua, anche quando da dire – oltre quanto già scritto dall’autore, come nel caso di Verdi e dell’Otello in particolare – c’è poco. Esistono infatti precise indicazioni, conservate nell’Archivio Ricordi: “Una particolarità è rappresentata dai volumi delle disposizioni sceniche, che riprendono la tradizione francese della mise-en-scène. […] Esse danno indicazioni minuziose sull’esecuzione e l’ordinamento degli elementi scenici, sulla composizione e le modalità di impiego del materiale di scena, sui movimenti che i cantanti e il coro devono eseguire, sui tableau che ne risultano.

Una lunga introduzione per dire che l’Otello ideato da Allex Aguilera non sta né dentro né fuori la tradizione. Si attesta su una via di mezzo che non concede nulla alla sperimentazione né spazio a quanto ci si aspetterebbe. Questo non significa che non abbia momenti di pregio, ma lo spettacolo nel suo complesso risulta poco dinamico a partire dalla gestione del luogo scenico.

Esterno/interno del palazzo si fondono nella scena (unica) di Bruno de la Venère: tre ordini di archi sovrapposti che circondano il palco citano l’antico, mentre un passaggio sospeso collegato da una scala a chiocciola al palcoscenico sembra uscito direttamente dal tardo Ottocento. Si tratta forse di un mix fra l’epoca storica del dramma e quella di composizione? Se così fosse, nulla punta a confermarlo durante lo spettacolo. E se i due piani permettono, in un paio di momenti, una corretta gestione dello sviluppo drammaturgico, restano comunque un elemento più estetico che funzionale.

La riflessione vale ugualmente per i costumi di Françoise Raybaud Pace, molto cupi e per nulla a servizio degli interpreti: basti pensare alla fatica di Desdemona solo per salire e scendere la scala con lo strascico del primo abito.

Di maggiore impatto la drammaturgia cromatica delle luci Laurent Castaingt che segue l’idea registica della dicotomia fuoco-acqua. Un contrasto che è appena accennato, in scena, dal fuoco del primo atto alla sala da bagno dell’ultimo e, eccezion fatta per la morte di Desdemona affogata nella vasca, non ha altri elementi a sostegno.

Certamente l’acqua è anche citata nei video di Etienne Guiol e Arnaud Pottier che scorrono sul velatino d’apertura per dare conto al popolo e al pubblico della vista delle navi, ma sembra ugualmente vincere la funzione estetica su quella drammatica.

D’altronde anche l’impiego delle masse è quasi nullo: il coro si dispone, canta molto bene l’ardua scena iniziale grazie alla direzione di Ciro Visco, e poi esce. Senza nessuna idea registica che lo coinvolga.

Lo stesso avviene per gli interpreti che – al di là del posizionamento scenico – non agiscono, ma semplicemente cantano. E nonostante questo, gli spostamenti in scena non concedono nulla alle tradizionali pose né attivano una sinergia reale fra i personaggi, che si dimenano, si voltano, tornano e si allontanano meccanicamente, senza convinzione. Neppure nei momenti più intensi si scatena una reale energia interattiva, perché il gesto resta episodico, generico e al di fuori di un’idea più generale che possa accompagnarne gli esiti verso un’evoluzione simile a quella suggerita dalla musica.

L’unico degno di nota per l’attitudine drammatica è il solo Jago che riesce nel Credo e nella scena della disfatta di Otello a concentrare l’attenzione sul gesto facendolo coincidere con la musica. È da rimpiangere, invece, la scelta di far maneggiare spade e pugnali senza una consapevolezza storica dell’arma che porta a una gestualità rigida o disallineata al dramma stesso.

L’attenzione maggiore dei cantanti resta comunque sul direttore. Daniel Oren vanta una carriera che parla da sé e dirige un Otello attento alle esigenze del canto senza dimenticare l’orchestra. Osservando i suoi gesti – mi è capitato poche altre volte di farlo da vicino – si nota la partecipazione fisica alla vibrazione del suono: le attese, le dinamiche, le sospensioni liriche escono dalle sue mani e guidano i professionisti attorno a lui, dalla buca d’orchestra al palco. I cantanti in particolar modo si affidano a quel gesto per calibrare volumi e cadenze, ritmo e abbandono, in un accordo a tratti unilaterale, ma indubbiamente efficace.

L’Otello delineato da Gregory Kunde ha dalla sua l’esperienza nel fraseggio, nella individuazione del momento più importante all’interno di una scena, nonché la solidità di un artista che sa il fatto suo e che non teme un ruolo da far tremare gli orli della tunica di chi lo canta. Peccato che a fronte di ciò il timbro risulti opacizzato e l’emissione più debole e lo squillo, che pure l’artista brandisce intatto in certe zone acute, abbia il contraltare di un registro medio e grave poco vibrante.

Accanto a lui la Desdemona di Roberta Mantegna sfoggia tutta la sua delicatezza di timbro e di emissione. Questo consente un giusto equilibrio fra le voci dei due amanti nei duetti – meglio nel primo che in “Dio ti giocondi” – ma le permette anche di mettere l’accento sulla delicatezza del personaggio, sulla sua sottomissione caratteriale che dà maggiore risalto all’omicidio finale: un femminicidio in piena regola. La parte più affascinante della sua vocalità resta il piano e il mezzoforte, registri che la partitura le permette di mantenere senza forzare mai sulla scrittura verdiana. In qualche passaggio più drammatico ci sarebbe voluto un fraseggio forse più intenso e una incisività maggiore, ma verranno – lo auspichiamo tutti – con il tempo e seguitando a frequentare il repertorio verdiano. Suggestivi restano i passaggi della Canzone del Salice i cui pianissimo sembravano sospesi sulle nuvole.

Molto interessante è poi Igor Golovatenko nel ruolo di Jago, tratteggiato senza eccessi grazie a una vocalità brunita, facile all’acuto e al grave, e a un fraseggio misurato e disinvolto, al pari della presenza scenica.

Squillante, giovanile e promettente il Cassio di Piotr Buszewski, tanto quanto è struggente e drammatica l’Emilia di Irene Savignano, ingiustamente relegata in un ruolo troppo breve per un carattere e una vocalità così peculiari.

Teatro dell’Opera di Roma

Otello

Musica di Giuseppe Verdi

Dramma lirico in quattro atti

Libretto di Arrigo Boito dalla tragedia di William Shakespeare

Prima rappresentazione assoluta Teatro alla Scala, Milano, 5 febbraio 1887

Prima rappresentazione al Teatro Costanzi 16 aprile 1887

Direttore Daniel Oren

Regia Allex Aguilera

MAESTRO DEL CORO CIRO VISCO

SCENE BRUNO DE LAVENÈRE

COSTUMI FRANÇOISE RAYBAUD PACE

LUCI LAURENT CASTAINGT

VIDEO ETIENNE GUIOL e ARNAUD POTTIER

PERSONAGGI E INTERPRETI PRINCIPALI:

Otello Gregory Kunde / Marco Berti (5, 8, 11)

Desdemona Roberta Mantegna / Vittoria Yeo (5, 8, 11, 12)

Jago Igor Golovatenko / Vladimir Stoyanov (5, 8, 11)

Emilia Irene Savignano**

Roderigo Francesco Pittari

Lodovico Alessio Cacciamani

Montano Alessio Verna

Cassio Piotr Buszewski

Un araldo Leo Paul Chiarot / Fabio Tinalli 4, 7, 9, 12

**diplomata “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma

con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

Allestimento Opera di Monte-Carlo e Opera Nazionale Tbilisi

Foto di Fabrizio Sansoni

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