“Le mammelle di Tiresia”, il surrealismo a chiudere la trilogia di Hangar Duchamp

22 Aprile 2023

Ci troviamo a Zanzibar, ovvero il luogo che Guillaume Apollinaire scelse, nei primi anni del Novecento, per rappresentare la sua patria Francia. Fu una scelta voluta, quella del drammaturgo, di andare oltre alle impressioni della realtà. Coniò persino un termine, “surrealismo”, per descrivere quel colpo di genio che fu il suo testo “Le mammelle di Tiresia”. Strumento, la scrittura, di cui si servì per schernire con pungente ironia l’intollerabile squilibrio di un ordine costituito e degli schemi di genere, temi caldissimi nell’attualità di oggi – quella vera e tangibile – che hanno ispirato il terzo capitolo della trilogia dell’avanguardia della Compagnia Hangar Duchamp. Diretto dal timoniere Andrea Martella, lo spettacolo è andato in scena al Teatro 7Off di Roma dal 13 al 16 aprile.

“Un’opera folle, visionaria, attuale, pacifista e femminista” riporta la sinossi dello spettacolo, che ha visto alternarsi sul palco Simona Mazzanti, Flavio Favale, Vincenzo Acampora, Vania Lai, Giorgia Coppi, Walter Montevidoni e Sveva Granieri. “Le mammelle di Tiresia” ci presenta una coppia sposata, sbilanciata, nei rapporti di forza, come da costume novecentesco. Ma accade un colpo di scena: Teresa abbandona il marito, uomo greve e autoritario, per assumere un’identità maschile, e fa volar via le proprie mammelle. Cambia il proprio nome in Tiresia e assume un carattere prepotente. Il marito, Cenerentolo improvvisamente solo e abbandonato, si troverà costretto ad assumere un’identità femminile per adempiere i compiti lasciati scoperti dalla moglie. A cominciare dalla maternità, che lo porterà a mettere al mondo, in un sol giorno, ben 49.051 bambini. L’uomo diventerà una madre ambiziosa, tanto da far innamorare un autoritario gendarme.

Sullo sfondo, una rete contiene centinaia di palloncini rosa, a rappresentare le mammelle di Teresa che sono così tante da invadere anche lo spazio della platea. Il pubblico è divertito e reagisce con fragorosi applausi alle trovate registiche e ai dialoghi che snocciolano lo sviluppo. Sul palco, gli attori alternano comicità, teatro dell’assurdo e tragedia. Con l’aiuto anche della musica, che nella scelta dei motivi crea un gancio con la stagione delle cronache contemporanee. Gli stessi oggetti che compongono le scenografie sono utilizzati per produrre suoni, anche ripetuti e volutamente fastidiosi. A creare un ambiente lontano dalla realtà, ma che della realtà conformista enfatizza le distorsioni. Atmosfere sospese tra il candore degli abiti matrimoniali e il “nero” del rapporto malato tra marito e moglie, che si accusano a vicenda e vengono anche alle mani. Tutto intorno a loro, un saggio narratore e grottesche figure secondarie che, volutamente impalpabili, danno sostanza ad una società sorda rispetto ai propri mali. Che si trascina distratta e per inerzia, mentre là fuori urge la rivoluzione.

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